Cultura

Festival del giornalismo, Misha Glenny: "Così ho scritto McMafia, il crimine oltre i confini"

Mario Calabresi intervista Misha Glenny al Festival del Giornalismo di Perugia 
Il direttore di Repubblica Mario Calabresi intervista l'ex corrispondente di Bbc e Guardian che nel  libro del 2008 ha raccontato la malavita come fenomeno globalizzato
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PERUGIA - Facile accomunare Misha Glenny a Roberto Saviano. Oltre a essere ottimi amici (“lui è più coraggioso di me, fa nomi e cognomi - ammette Glenny - a me interessa più il lato sociologico e psicologico del fenomeno”), anche l’ex corrispondente della Bbc e del Guardian è passato attraverso un libro di successo per approdare a una serie tv di risonanza planetaria. Il suo McMafia è una punta di diamante di Amazon Prime, un racconto del crimine organizzato che “non indugia troppo sulle scene di violenza e soprattutto non è ambientato in una periferia urbana ma nei quartieri più lussuosi”, sottolinea Mario Calabresi, direttore di Repubblica e intervistatore di Glenny, al termine della sua partecipazione al Festival del Giornalismo.

• MCMAFIA
McMafia è il racconto di un crimine organizzato e internazionale “volutamente non collegato ai tradizionali clan italiani”, sottolinea Glenny, la scommessa vinta di rendere avvincente e spettacolare fenomeni freddi e automatici come il riciclaggio. “Il segreto - spiega lo scrittore alla sala affollata – è di legare il tutto alle storie personali, alle vicende umane, allo sviluppo caratteriale dei protagonisti. Una storia cominciata nella ex Jugoslavia, con un leader dei nazionalisti serbi che scappa e trova rifugio tra i mercenari croati con a capo un ex commilitone della legione francese. Di giorno combattevano gli uni contro gli altri e di notte trafficavano in droga, contrabbando e prostituzione, grazie agli ingenti capitali provenienti dalla Russia appena liberata”.  

A un personaggio come Glenny non potevano essere risparmiate domande sull'attualità. Calabresi la mette giù piatta: “Sono stati davvero i russi ad avvelenare la spia Serghej Skripal?"; Glenny non ci gira intorno: “Quando Theresa May puntò il dito contro la Russia, sostenendo che c’erano evidenti prove che fossero stati loro a commettere il misfatto, Macron si affrettò a prendere le distanze, sostenendo come fosse prematuro incolpare Mosca. Pochi giorni dopo lui e la Merkel convennero che esistevano prove sufficienti a incolpare i servizi di Putin. Questo vuol dire che Londra ha mostrato documenti inoppugnabili che tuttavia non possono essere comunicati per non bruciare chi ha fornito queste prove. Se fosse così sarebbe stato un autogol per Putin, nemico della May, tornata in auge dopo questa vicenda. E già che parliamo di malaffare e di Russia – rincara – chi voglia sapere come si muovono i flussi di denaro importanti, quelli che alimentano la criminalità dei colletti bianchi, non deve andare alle calcagna dei vari boss, basta seguire il tracciato di oleodotti e gasdotti e farsi un’idea dei rapporti internazionali che questi scambi comportano”.

E ancora. Lula è un perseguitato oppure no? (“È stato Saviano a suggerirmi questa domanda – ammette Calabresi - mi ha detto che sei informatissimo sul Brasile”). Sorride Misha Glenny, convinto che Lula abbia partecipato ad attività illecite, anche in questo caso legate al petrolio, con lo scandalo Autolavaggio, legato al colosso Petrobras.Tornando al Brasile e al ritorno della violenza, Glenny sta lavorando proprio sull’evoluzione della criminalità locale, con i 61 mila morti ammazzati nel solo 2017, per l’ottanta per cento ragazzi di colore tra i 18 e i 28 anni, tutti legati al narcotraffico. Sarà interessante - aggiunge - vedere gli sviluppi sociali e sanitari della legalizzazione”. Riguardo a McMafia, Glenny è in trattativa (a diversi zeri) per un seguito. Anticipa solo che il protagonista Alex Godman è ormai diventato un criminale professionista, abbandonando i suoi conflitti etici, pronto per un escalation nella scala gerarchica della malavita organizzata.
 
• CERCATE LO SCOOP? USCITE DALL'AUTOSTRADA
Bella storia quella del Pulitzer James Risen, occhio mansueto e incrollabile cocciutaggine messa a dura prova in quarant’anni di mestiere. Scriveva per il Los Angeles Time di automobili nel distretto di Detroit, di Federal Reserve, insomma, si annoiava non poco e chiedeva inutilmente ai suoi capi di essere dirottato su argomenti diversi. Era il ‘95, epoca Clinton. Dopo tanto insistere gli fu offerto un settore a metà, un po’ di Sudamerica e un po’ di Cia, che allora non interessava a nessuno. Proprio in quel periodo, tuttavia, c’era stato un rompete le righe nei quadri dei servizi segreti, una fuoriuscita generale che aveva causato molto malcontento. “Non scrissi una riga del Sudamerica, neanche quando me lo chiesero, avevo trovato un filone d’oro di notizie. Ed eravamo in pochissimi a scriverne”.

Seguirono alcuni buoni servizi ma tutto cambiò con l’attentato dell’11 settembre 2001. Sei anni di lavoro avevano collocato Risen, ora al New York Times, in pole position. Tuttavia, volendo restare in tema, cominciarono le incursioni della safety car governativa, con modi piuttosto spicci. “Ero reduce da un errore che mi insegnò molto: un anno prima, su richiesta dei servizi, non avevo scritto una storia sulle operazioni di intelligence in merito ad al-Qaeda per non ‘esporre a pericoli i nostri militari’, così dicevano i governativi. Quando le due torri si sbriciolarono mi resi conto che il mio silenzio aveva giovato solo ai quadri dirigenti e che se fossi uscito con qualcosa di forte, di sicuro avrei rotto i rapporti con la Cia ma forse si sarebbe indagato con più solerzia su Bin Laden e chissà, magari l’attentato avrebbe avuto un altro sviluppo. Quell’episodio cambiò la mia fòrma mentis. Me ne accorsi l’anno successivo, quando venni a sapere di una prigione segreta che i nostri servizi avevano allestito in Thailandia, notizia imbarazzante. Scrissi il pezzo ma non fu mai pubblicato. E così per altri servizi, una cosa deprimente.

Nel 2003 mi imbatto in una nuova storia che metteva in ridicolo i servizi. Chiesi conferme all’ufficio stampa della Cia. Immediatamente fui convocato nello studio di Condoleezza Rice, attaccato alla stanza ovale del Presidente. La Rice mi venne a un metro dalla faccia, con fare decisamente intimidatorio, mi fissò negli occhi scandendo: ‘Voglio che distrugga ogni traccia di questa storia, seppellisca i taccuini e non ne parli mai con nessuno’. Io ero incredulo. Per pubblicare la storia mi mancava una conferma ufficiale e questa era la migliore e più autorevole delle riprove.

Risen non aveva fatto i conti, però, con i suoi capi. Da questo momento comincia il suo braccio di ferro col direttore Bill Keller che, al contrario, accoglie le richieste della Rice, bloccando l’inchiesta del suo reporter. Risale ad allora il primo libro di Risen, degno anticipo al Pulitzer che arrivò nel 2006, anche qui con un libro, dopo un estenuante braccio di ferro con l’amministrazione Bush e gli stessi vertici del Times. Risen, furibondo per l’atteggiamento del suo giornale, incoraggiato dalla moglie, decise anche stavolta di pubblicare autonomamente il suo ennesimo scoop, curato mesi e mesi, con un informatore che vagheggiava ogni volta di avere per le mani una storia clamorosa, ma che solo all’ultimo cominciò a parlare delle intercettazioni illegali compiute dal governo, a tutto e tutti.

Il colmo arrivò quando Risen fu accusato dai colleghi di “insubordinazione” e “ribellione”. Gli fu chiesto di censurare il libro, per evitare il licenziamento, addirittura ci fu un incontro tra George W. Bush e l’editore del New York Times e due capiservizio per evitare l’uscita dell’articolo sul giornale, ormai obbligatoria con il libro già pronto per essere stampato. Il ridicolo si ebbe alla consegna del Pulitzer: a premiarlo erano gli stessi che per lungo tempo avevano fatto in modo di zittirlo. “Ora hanno capito anche loro che non conviene tappare la bocca ai cronisti coraggiosi”. Quando gli chiedono come arrivare a notizie così esclusive lui risponde. “Se continui a percorrere l’autostrada non hai problemi: hai l’assistenza, i rifornimenti, i servizi e tutto il cibo che vuoi. Ma se esci dall’autostrada… allora comincia l’avventura”.

• NAZI & NAZI
C’è poi così differenza tra nazionalisti della destra più conservatrice e i nazisti nostalgici in America? “Non troppa, anzi a volte le parti si sovrappongono”, afferma uno dei più autorevoli studiosi del fenomeno, David Neiwert, autore del libro Alt-America, ritratto abbastanza impietoso dei legami di Donald Trump con l’estrema destra. Nell’incontro moderato da Leonardo Bianchi di Vice, Neiwert racconta del corteggiamento di Trump alle fazioni più estreme, con i sistematici retweet dell’account presidenziale e con delle sconfessioni pubbliche date con estrema riluttanza e quando proprio non era possibile fare altrimenti. Di fatto il provvedimento contro i 12 milioni di immigrati, costretti all’espatrio forzato, ha spalancato la porta ai voti di un serbatoio che negli ultimi anni si è riempito di nuove generazioni. “La tolleranza verso queste formazioni di ultradestra – sostiene nel suo eloquio pacato Neiwert -, ha consentito la sopravvivenza di vecchi personaggi e l’arrivo di nuovi molto più capaci di utilizzare in modo spregiudicato i social, con un umorismo assolutamente cinico e spietato”. Un’atteggiamento che tenta le disincantate nuove generazioni, poco inclini a schierarsi con l’una e l’altra parte e compiaciute dallo sparare a raffica su tutto e tutti.
 

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