Cultura

Festival del giornalismo, Gratteri e la battaglia al narcotraffico: "I boss sono al sicuro, protetti da leggi inconsapevoli"

Ultimo giorno della manifestazione perugina, incontro con il procuratore che spiega i rapporti fra cocaina, sudamerica e ndrangheta. Poi Petrelluzzi e i trent'anni di 'Un giorno in pretura', la fiducia degli italiani nella rete, le difficoltà della ricerca nel nostro paese

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PERUGIA – “L’ottanta per cento della cocaina europea è in mano alla ndrangheta ma noi possiamo fare ben poco. Perché la materia prima è stoccata fuori e i boss sono al sicuro, spesso nelle civilissime capitali del nord Europa, protetti da leggi tragicamente inconsapevoli”. Prosegue anche nell’ultima giornata del Festival del Giornalismo la battaglia di Nicola Gratteri e Antonio Nicaso sull’allarmante infiltrazione delle mafie nel resto d’Europa, messa dai due nero su bianco nel loro ultimo libro Fiumi d’oro.

Dopo l’antipasto servito ieri da Misha Glenny con McMafia, arriva la documentata conferma del procuratore della Repubblica di Catanzaro sulla trasformazione della City di Londra, per buona parte ormai in mano al narcotraffico, che si prende gioco delle norme locali coniando società dal nome Banda Bassotti e simili con la certezza dell'impunità. A ben vedere è probabile che tra i tifosi della Brexit ci fossero pure le cosche di nostra competenza.

Gratteri è apparso tuttavia rinfrancato dalla sua recente visita a Rotterdam, per il vertice europeo antidroga dell’Idec, che lo ha visto tra i relatori, su esplicita richiesta della Dea, l’agenzia federale antidroga statunitense. “Per la prima volta ho visto il premier olandese seriamente preoccupato. L’Olanda, insieme alla Spagna, costituiscono i principali porti di attracco della cocaina in Europa, dove cioè viene stoccata tutta la roba. Solo il 9 per cento della cocaina trattata dalle nostre organizzazioni resta in Sudamerica. Il resto si trasforma assai presto in bilioni di euro, ripeto bilioni di euro, che entrano nel mercato legale europeo. Ed è assurdo pensare che questi soldi finiscano solo in pizzerie, ristoranti e latifondi. Esistono le banche e pure i giornali, visto che ne parliamo qui”.

La parziale soddisfazione di Gratteri si spiega col fatto che nei suoi frequenti tour oltreconfine gli è capitato di assistere a lezioni universitarie in Irlanda, dove il professore di management invitava i suoi studenti a non formalizzarsi sull’origine dei capitali a disposizione, se mafiosi o no, oppure delle accalorate riunioni con i politici tedeschi che “urlavano come vitelli: no, da noi la mafia non c’è”. Interessante anche il video, girato dallo stesso Gratteri e quasi inedito, dove si parla dei pericoli che corrono le forze antidroga e di come può capitare che il ricco imprenditore sul panfilo si cacci nel naso della polvere boliviana doc essiccata con urina di maiale.

La ricetta di Gratteri è semplice. “La cocaina viene prodotta interamente in Colombia, Bolivia e Perù. Un Onu che si rispetti manda un proprio delegato non dai capi di Stato ma direttamente dai contadini e gli chiede: quanto prendete per un quintale di coca? Se loro dicono 100 e col caffè ne fanno 40, gli si danno 60 e si resta lì a controllare”. A nostra espressa domanda, sulla possibilità di promuovere un referendum europeo sul 416 bis, la norma sull’associazione mafiosa che ha segnato un punto di svolta nella nostra legislazione, Gratteri ha un’iniziale moto di sfiducia, conoscendo la scarsa attenzione dei Paesi del Nord Europa. Pensandoci, però, e riflettendo sulla possibilità di far circolare in tutta Europa queste informazioni, suonando un allarme che nessuna forza politica potrebbe ignorare conclude. “Certo, potrebbe essere una buona idea”. Nel frattempo la ndrangheta fa incetta di merce e immette cocaina nel mercato all’ingrosso a mille euro al chilo, quando altrove costa almeno 1800. Non sarà una battaglia facile.
  • I trent’anni di Roberta
“Certo che in trent’anni ci sono stati cambiamenti! I giudici sono meno autorevoli di un tempo, più soggetti alle loro pulsioni, i pm soffrono a volte di protagonismo, gli imputati sempre meno intimiditi dall’aula, non solo per strafottenza, anche per sprovvedutezza. Quello che non cambia è il dolore che c’è sotto. Un delitto resta un delitto, la morte di una moglie o di un figlio restano pari pari le tragedie di duemila anni fa. Stessa cosa per i sentimenti: la gelosia, la bontà, la mancanza di pietà”.
Roberta Petrelluzzi, col suo Un giorno in pretura, solca come una scialuppa di salvataggio il palinsesto della tv italiana. Da trent’anni il suo programma riporta i momenti processuali di casi che possono essere clamorosi o poco conosciuti, comunque ad alto tasso di umanità. E sempre con l’intento di fornire allo spettatore gli strumenti per farsi un’idea propria.
Roberta Petrelluzzi 
“A me non interessa il pubblico morboso, quello vendicativo con la bava alla bocca: io voglio dare fiducia ai miei spettatori e credo che, tirandomi da parte e offrendogli tutte le informazioni, lui possa decidere”. Qui al Festival non perde occasione di tirare le orecchie ai giornalisti. “Tra le cose più deteriorate del nostro processo c’è l’inquinamento dei tanti cronisti che oggi s’inventano investigatori e ingarbugliano, spesso inutilmente, il lavoro degli inquirenti. Non spetta a loro indagare, fatte salve alcune eccezioni, come i casi dimenticati. E’ chiaro che le dichiarazioni rese a un cronista non hanno lo stesso valore di quelle rilasciate a un giudice. Con un giornalista non rischi nulla, puoi dire ciò che vuoi e spesso i processi sono ingolfati da articoli e dichiarazioni che confondono le acque”.

Quando le si chiede un caso emblematico seguito dalla sua trasmissione lei ci pensa un po’ e poi decide: “Il caso Uva. La vicenda aveva fatto il giro delle trasmissioni tv, tutti, chi più chi meno, avevano sposato la tesi del pestaggio ma gli atti processuali dicevano altro. Mi hanno chiesto se siamo stati ringraziati dai carabinieri che sono stati assolti ma noi non cerchiamo mai questi riscontri”.

Impossibile non fare paragoni con un’altra decana Rai, oggi molto amata, Franca Leosini, l’una schiva, attenta a non fornire accenti personali neanche con il tono della voce, l’altra teatrale fino al dadaismo, col suo solfeggio imperterrito che segue un copione stabilito. La Petrelluzzi sfugge a qualsiasi polemica, limitandosi a dire che la sua trasmissione ha tutto un altro taglio.

E’ sbagliato, tuttavia, pensare che Un giorno in pretura tenga volutamente il fuoco al minimo. “Io ho una regola. Assoluto rispetto del dolore ma nessuna forma di esclusione, anche dei fatti scabrosi. Il mio dispiacere più grosso, in tutti questi anni, è stata la mancata messa in onda di un caso di incesto che raffigurava in modo esemplare cosa accade in queste situazioni. Non hanno voluto mandarla in onda ma io non ho condiviso la scelta”. Infine una lezione di esperienza. “Certi processi come quello della trattativa Stato-Mafia sono troppo complessi e soprattutto è trascorso troppo tempo. Quando gli anni diventano decenni e altri se ne sommano non può essere un tribunale a giudicare ma la storia. E’ cambiato tutto nel frattempo, anche il momento storico è importante per determinare una sentenza, non la si può fare a venticinque anni di distanza”.
 
  • Quanti buchi nella rete…
Parliamo di web e di fiducia. Il 70% degli italiani si informa attraverso la rete, il 30% circa tramite i social: mondi “virtuali” in cui circolano notizie vere e verificate, ma anche molte fake news, molto dannose. I lettori sono in grado di riconoscerle e starne alla larga? Quante notizie false si incontrano online? Molte. Coloro che dichiarano di informarsi attraverso la rete, fanno sapere che l’85% di notizie che “incontrano” non sono completamente corrette. Chissà quanto ancora si andrà avanti così.
 
  • Alla ricerca dell’Italia
”La ricerca in Italia fatica perché manca da una parte l’impegno politico e perché è difficile mantenere la progettualità, riuscendo a svolgere un lavoro continuativo. Manca il convincimento”. Lo dice Elena Cattaneo, senatrice a vita e biotecnologa nel panel sulla ricerca scientifica nel nostro Paese. Secondo Marco Cattaneo apre l’evento affermando che “la scienza è trascurata sia dai mezzi di informazione che, purtroppo, dalla politica. L’Italia è un paese che ha dato tantissimo alla scienza, sta avendo risultati di eccellenza, eppure la ricerca continua a faticare tantissimo.

Voce da ascoltare, in proposito, quella di Roberto Defez, ricercatore Cnr di Napoli, autore del libro Scoperta. Come la ricerca scientifica può aiutare a cambiare l’Italia. Come molti altri Defez sottolinea l’imperdonabile fuga di nostri cervelli, tuttavia punta il dito anche sulla cattiva gestione delle risorse: “Io non chiedo altri fondi per la ricerca scientifica, dico che dovremmo sfruttare meglio quelli che abbiamo. Ci sono state spese sbagliate che hanno bloccato l’erogazione dei fondi e al momento abbiamo un buco di bilancio. In questo modo ci stiamo mangiando il futuro: è necessario fermarsi un attimo e capire come gestire al meglio la cosa per limitare i danni”. Ricercatore avvisato, mezzo salvato. E meglio finanziato.