Economia

Spotify in Borsa: è l'esame di maturità

Anche nel debutto a Wall Street la piattaforma svedese di streaming musicale sceglie una via anticonformista con la quotazione diretta. La sua esperienza potrebbe diventare una lezione anche per altri produttori di contenuti, compresi i giornali 

1 minuti di lettura
NEW YORK. La piccola (ex) start-up svedese che ha rivoluzionato il mondo della musica si quota in Borsa. Spotify fa il suo ingresso al New York Stock Exchange e anche in questo vuol essere anti-conformista: sceglie il metodo meno frequente, il direct listing, che significa che non c’è una nuova emissione-collocamento di azioni. Gli esperti dicono che questo aumenta i rischi di un atterraggio turbolento. Il responso arriverà già all’apertura di Wall Street. Intanto la quotazione diventa l’occasione per fare il punto sull’impatto di Spotify. L’approccio con cui questa azienda ha trasformato il consumo di musica potrebbe – forse – contenere delle lezioni utili anche per altri produttori di contenuti, compresi i giornali. Al suo inizio Spotify fu pressoché assimilata a un pirata. Poi però con l’aggiunta di una versione “freemium” – se paghi un abbonamento hai musica a volontà senza interruzioni pubblicitarie – è diventata una fonte di reddito per l’industria musicale e quindi indirettamente per gli artisti. Al punto che diverse case discografiche hanno voluto salire a bordo dell’esperimento diventando azioniste di Spotify. E dopo 15 anni di declino dei fatturati, crollo delle vendite di Cd, da un biennio il business musicale ha avuto una ripresa.

Oggi Spotify, fondata a Stoccolma nel 2006 da Daniel Ek e Martin Lorentzon, ha 157 milioni di utenti nel mondo, di cui 71 milioni sottoscrivono la versione a pagamento. Il successo è tanto più significativo perché è avvenuto in un settore in cui alcuni pionieri sono defunti (Napster) e dove hanno fatto il loro ingresso giganti come Apple e Google. Dalla sua nascita Spotify non ha mai realizzato profitti eppure le attese che circondano la sua quotazione sono di un valore di 20 miliardi di dollari. Questo non stupisce troppo, in un mondo dove Amazon ha rappresentato a lungo un modello di business che considerava secondario il profitto, privilegiando invece la conquista di quote di mercato. Il modello “freemium” sta diventano l’alternativa alla gratuità totale: combina un’offerta “free”, cioè gratuita ma finanziata dalla pubblicità, con la possibilità di passare al servizio “premium” dove la pubblicità scompare tramite il pagamento di una quota di abbonamento. Tutto sta a conquistare il pubblico nella versione gratuita, convincendolo che la qualità del servizio merita un pagamento per passare alla versione superiore.