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Le riforme di Modi segnano il passo il miracolo indiano inizia a vacillare

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<p>LA DEMONETIZZAZIONE È STATA UN DISASTRO, L’INTRODUZIONE DELL’IVA È AFFONDATA NELLA BUROCRAZIA, LE DISEGUAGLIANZE SONO SEMPRE PIÙ PROFONDE: EPPURE WORLD BANK E FMI VEDONO IL PAESE IN CRESCITA PIÙ DELLA CINA Federico Rampini New York F orse gli farà un po’ ombra l’arrivo di Donald Trump, l’ospite improvviso annunciato in extremis al World Economic Forum. Però un’altra star di quest’anno a Davos sarà Narendra Modi, premier indiano da quasi quattro anni, eppure ancora un personaggio poco noto e non abbastanza studiato in Occidente. Sulle montagne svizzere Modi arriverà “graziato” da un inatteso verdetto della Banca Mondiale: la sua India torna in testa nella gara con la Cina, per velocità di crescita. Proprioquando si addensavano critiche sempre più severe sulla politica economica di New Delhi, la Banca Mondiale ed anche il Fondo monetario internazionale, hanno pubblicato queste previsioni ottimistiche: crescita del 6,8% nel 2017-18 (una proiezione perfino superiore a quella dell’istituto nazionale di statistiche di New Delhi), seguita da un’accelerazione al 7,3% nel biennio successivo. È un ri-sorpasso, dunque. L’elefante indiano tornerebbe davanti al dragone cinese, se le previsioni si confermano. Nessuno stapperà lo champagne, però, nella delegazione indiana a Davos. E non solo perché Modi da induista rigoroso è del tutto astemio. I raffronti con la Cina appassionano per lo più gli analisti occidentali. Magari hanno anche qualche rilevanza strategica, visto che da molti anni le amministrazioni Usa (a prescindere dal colore politico, Bush-Obama-Trump non divergono in questo) hanno puntato su un rapporto strategico con l’India per contenere l’espansionismo cinese. La realtà economica però è diversa. Per restare coi piedi per terra bisogna ricordare anzitutto che la velocità della crescita è una cosa, la dimensione della ricchezza nazionale è un’altra. Al momento il Pil di Pechino è quasi il quintuplo di quello di Delhi: in questo senso l’elefante non è quello che si crede… Le belle previsioni della Banca Mondiale arrivano poi in un momento non particolarmente felice. Da mesi l’India faceva notizia soprattutto per le delusioni delle sue riforme economiche. Modi vinse le elezioni nel 2014 promettendo di ridare vigore a un’economia non abbastanza dinamica. Le sue due riforme più importanti sono state audaci nella concezione, mediocri nella pratica. La prima è stata la cosiddetta demonetizzazione, cioè la messa fuori circolazione delle grosse banconote di rupie. Un’idea nata soprattutto per combattere evasione fiscale e corruzione che fanno largo ricorso ai pagamenti in contanti. Nella pratica la riforma monetaria ha creato soprattutto caos, disagio per i ceti più poveri (che fanno lavori in nero o comunque non hanno conti bancari e vengono remunerati in contanti), mentre è prematuro dichiarare vittoria nella lotta alle bustarelle, piaga ubiqua a tutti i livelli. L’altro cantiere di riforma è stato fiscale, con l’introduzione dell’equivalente di un’imposta indiretta sul valore aggiunto. L’India federalista non aveva un’Iva nazionale, invece aveva ancora un coacervo di tasse locali per cui non la si poteva neppure considerare come un mercato unico: tante merci pagavano dazi al passaggio di frontiera da uno Stato indiano all’altro. L’idea di un’Iva nazionale era ovviamente sacrosanta. Però ancora una volta nell’attuazione ha prevalso un male che sembra incurabile: lo strapotere della burocrazia. Se l’apertura di una partita Iva può essere una pesante seccatura in Italia, in India è subito diventata un incubo. Piccole e medie imprese, artigiani e professionisti stanno impazzendo sotto un’alluvione di formulari, la maledizione burocratica ha colpito ancora. Per questo l’immagine di Modi “riformatore” ne è uscita piuttosto malconcia. E si ha l’impressione che il premier stia cercando una via di fuga nell’integralismo religioso, per compensare su quel fronte le delusioni della sua politica economica. L’economia indiana ha poi dei problemi strutturali sui quali l’attuale premier non sembra avere molta presa. Tornando ai raffronti con la Cina – che non sono inutili, se consumati con moderazione – una differenza di fondo è nei confronti della globalizzazione. L’India non si è mai aperta al mondo esterno e agli scambi internazionali, rimane un’economia relativamente introversa, rispetto al modello prevalente più a Oriente. La Cina invece ha inseguito tutti gli altri dragoni, più piccoli di lei, che l’avevano preceduta: i modelli di sviluppo trainati dall’export che di volta in volta hanno miracolato Giappone, Taiwan, Singapore, Corea del Sud. L’India a tutt’oggi cattura una quota dell’1,6% del mercato mondiale, minuscola rispetto alla stazza della sua popolazione (ormai eguale a quella cinese, 1,4 miliardi) o anche rispetto al suo Pil che è superiore a quello tedesco in termini nominali ed anche a quello giapponese se misurato in parità di potere d’acquisto. In alcuni frangenti il modello autarchico indiano è apparso più resiliente di altri: di fronte a uno shock sistemico come la crisi del 2008-2009, non era male essere isolati dal contagio. Ma adesso che la crescita globale è ripartita e due locomotive come America e Cina tirano alla grande, è davvero sorprendente che la Banca Mondiale assegni all’India una ripresa fantastica, pur essendo un’economia poco sensibile al traino dell’export. Un altro problema indiano è l’enormità delle diseguaglianze interne. Viviamo in un mondo sempre più diseguale, ma l’India è una campionessa al riguardo. Prendo i seguenti raffronti da una brillante analisi di Salvatore Babones su Forbes. La capitale Delhi con un reddito pro capite di 4.000 dollari annui si issa al livello dell’Indonesia, che non è niente male. Ma i più poveri degli Stati indiani, che sono il Bihar e l’Uttar Pradesh, a quota mille dollari sono ai livelli dell’Africa sub-sahariana. Perfino il Karnataka, lo Stato che al suo interno ha Bangalore cioè la Silicon Valley indiana, con 2.400 dollari di reddito medio annuo è alla pari con Papua Nuova Guinea. Negli Stati Uniti lo Stato più ricco (Massachusetts) ha redditi due volte superiori a quello più povero (Mississippi), in Cina la provincia più ricca (Pechino) ha quattro volte più reddito della più povera (Gansu). In India il divario è di otto a uno. E tuttavia, tornando al clima che Modi troverà a Davos, un altro studio può confortarlo. Proprio mentre decolla la privatizzazione di Air India – compagnia di bandiera che era diventata un simbolo di inefficienza – la società di consulenza A.T. Kearney promuove l’India come una delle due economie emergenti che entrano nella Top Ten del Foreign Direct Investment Confidence Index. (l’altra è la Cina). Gli investitori internazionali la descrivono come “caotica ma competitiva”. Uno dei tanti ossimori a cui bisogna abituarsi quando si parla dell’India. I supporter dell’Indian Congress Party durante una protesta nel primo anniversario dell’infausta operazione di “demonetizzazione” dell’economia indiana decisa dal governo nel dicembre 2016 </p>