Economia

PRIMOPIANO

La deregulation al rallentatore sulle banche Trump è prudente

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<p>Andrea Greco «N on c’è alcuna guerra delle valute di cui si possa parlare», diceva lunedì Mario Draghi ai parlamentari europei. Delle guerre valutarie, infatti, non si parla. Specie se uno di mestiere fa il banchiere centrale. Resta il fatto che ci sono sempre state, tra fasi dormienti e recrudescenze – anche militari – che si inseguono dal primo Novecento. Non sono altro che continuazioni della politica con altri mezzi: quelli della forza commerciale, applicata al tasso di cambio. L’aspetto preoccupante è che da mesi la tensione su commerci e valute globali è risalita e spaventa, in tutte le sue espressioni. <p>Eugenio Occorsio E ra il terzo pilastro del programma economico di Donald Trump: oltre alla riforma fiscale (fatta) e alle infrastrutture (avviate), il presidente prometteva una totale deregulation del settore finanziario con lo smantellamento quasi istantaneo del Dodd-Frank Act, la legge del 2010 voluta da Obama per limitare la libertà di banche e assicurazioni i cui eccessi erano stati alla base della crisi del 2008, e l’annullamento della “famigerata” Volcker Rule che proibisce il “trading proprietario” delle banche, cioè l’utilizzo dei soldi dei correntisti per speculare. Invece, niente (o quasi) di tutto questo. Ed è passato più di un anno. È una vittoria di Elizabeth Warren, l’agguerrita senatrice democratica del Massachusetts che si pone di traverso a ogni tentativo di sciogliere le briglie alle finanziarie Usa? «Macché, la deregulation si farà, solo che richiede tempo: una manovra così importante non si fa dal giorno alla notte», risponde sicuro Steve Eisman di Neuberger Berman, diventato uno dei più celebri portfolio manager d’America da quando previde proprio la crisi del 2008 giocando al ribasso sui subprime, vicenda da cui è tratto il film “The Big Short” ( short in inglese è la scommessa ribassista) dove lui è interpretato da Steve Carrell. «Le dirò di più: sto investendo massicciamene sui titoli bancari. Perché sono certo che la deregulation si farà e perché le banche americane non sono mai state così forti dagli anni ‘90. Pensi solo che il leverage di Citigroup era 35 a 1 prima della crisi (per ogni 35 dollari prestati ce n’era solo uno di capitale, ndr), ora è di 10 a 1, e tutt’al più salirà a 12-13 nei prossimi due-tre anni. E così tante altre: sono capitalizzate molto meglio di quelle europee. E sono ampiamente al di sopra di qualsiasi parametro richiesto dalle regole di Basilea». Sta di fatto però che i nuovi capi sia della Fed, Jerome Powell, che della Sec, Jay Clayton, sono personaggi assai pacati, sicuramente meno “guerrafondai” dei turbolenti consiglieri commerciali che hanno aperto la settimana scorsa la guerra dei dazi. «Va anche detto che non è così facile per il presidente imporre politicamente misure che in buona parte rispondono alle authority specializzate, quelle che lei citava ma anche per esempio il Comptroller of the Currency e la Federal Deposit Insurance Corporation che gestisce le crisi e le ristrutturazioni bancarie, e ancora altre potenti agenzie», riflette Allen Sinai, decano degli economisti di Wall Street, oggi a capo della Decision Economics dopo una vita fra Fed, Casa Bianca, banche d’investimento. Non a caso Trump era partito garibaldinamente con alcuni ordini esecutivi nelle primissime settimane su aspetti marginali come gli obblighi di scritture contabili e la frequenza del reporting, poi il silenzio. «Un fattore che consiglia prudenza nelle modifiche - aggiunge Sinai - è lo stato di salute eccezionale dell’economia americana, che potrà crescere al ritmo medio del 3% per diversi anni ancora. I salari cominciano a riguadagnare quote, il potere d’acquisto delle famiglie migliora, la fiducia dei consumatori sale, il sistema finanzario regge benissimo e le cadute di Wall Street di queste settimane sono fenomeni momentanei». È come se l’amministrazione assistesse stupita a questo stato di grazia economico, con l’aggiunta tutt’altro che sgradita di un dollaro debole, e quindi abbia valutato che forse non è il caso di turbare il quadro con un Big Bang di stampo reaganiano (e thatcheriano). Forse se le cose fossero andate diversamente, avrebbe accelerato anche con la deregulation. «Comunque, guardate che qualcosa si muove», riprende Eisman. «Per esempio tra poco verrà portato da 50 a 250 miliardi di dollari di patrimonio il limite sotto il quale si viene esentati dagli stress test. Questo indica due cose: che le banche minori ma non minuscole acquisteranno molta più libertà di movimento, e soprattutto che il sistema finanziario è solido. Ripeto: per la prima volta nella mia vita professionale, lunga ormai più di trent’anni, mi sento di affermare che non ci sono rischi sistemici». La solidità del sistema finanziario è sicuramente parte integrante dell’attuale miracolo economico trumpiano. «Gli americani ci accusano sempre di aver immesso soldi pubblici nelle banche con troppo ritardo rispetto a loro», obietta però Angelo Baglioni, economista internazionale alla Cattolica di Milano. «Ma probabilmente a questo ritardo, che magari in qualche misura c’è anche stato, coincide ora un più attento standard di valutazione del patrimonio. Quando loro parlano di un rapporto di uno a dieci, per esempio, si riferiscono alle attività “grezze”, cioè totali. Noi europei siamo più attenti alla ponderazione: un euro, o un dollaro, prestato a un’impresa rischiosa vale ben diversamente da un euro prestato, che so, a uno Stato o a un altro emittente sicuro. Così nascono le valutazioni della vigilanza Bce, e i dettami di Basilea. Mi auguro che gli americani rispettino questi ultimi sempre con attenzione. Altrimenti non è deregulation, è rischio puro». 1 2 3 4 </p>