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L’economia globale cresce Cina, India e Stati Uniti trainano il resto del mondo

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<p>Marco Frojo Milano A giugno la congiuntura globale entrerà nel suo decimo anno di espansione e gli economisti sono concordi nell’affermare che nei successivi dodici mesi non dovrebbero esserci sorprese negative. Una situazione eccellente, dunque, su cui pochissime persone avrebbero scommesso un decennio fa, quando le scosse dello scoppio della bolla dei subprime e del fallimento di Lehman Brothers facevano ancora tremare il sistema finanziario mondiale. La cura da cavallo voluta dalle principali banche centrali ha però indubbiamente riacciuffato un paziente che era sull’orlo dell’abisso e posto le basi per un ciclo espansivo che, sotto molti aspetti, non ha precedenti nella storia. A favorire questo andamento non sono state però solo le banche centrali, il cui contributo è comunque stato fondamentale, ma l’impressionante crescita di Paesi come la Cina e l’India: con una popolazione complessiva superiore ai due miliardi di persone, molti dei quali usciti dalla povertà per entrare a far parte della classe media, hanno sostenuto la domanda mondiale proprio nel momento in cui i consumatori e le aziende occidentali, spaventati dalla crisi, avevano drasticamente ridotto gli acquisti e gli investimenti. Come è facile comprendere, si tratta di cambiamenti epocali che, non a caso, hanno ridisegnato la cartina dell’economia mondiale. L’aspetto più importante per l’attuale stato della congiuntura, sebbene di breve periodo, è però dato dal fatto che tutti e tre i grandi blocchi che compongono l’economia mondiale, Stati uniti, Europa e Asia, godono di ottima salute, sebbene ognuno di loro si trovi a punto differente del ciclo economico. L’America Sono stati all’origine della crisi economico-finanziaria che ha scosso il mondo intero ma gli Usa sono stati anche il Paese che è intervenuto in maniera più tempestiva e decisiva per arginare gli effetti della crisi. Il Pil della prima economia al mondo ci ha messo solo due anni per tornare sopra i livelli pre-crisi e oggi, dopo quasi un decennio di crescita ininterrotta, può vantare un progresso cumulato di più del 25%, un valore da far impallidire Paesi come l’Italia e la Francia che ancora devono tornare sopra i valori del 2008. Secondo le più recenti stime della Federal Reserve, il prodotto interno lordo a stelle e strisce dovrebbe crescere di un altro 2,8% nel corso di quest’anno, per poi rallentare al 2,4% il prossimo. Nonostante la lunghissima crescita, l’inflazione continua però a rimanere sostanzialmente sotto controllo con un +1,9% previsto per il 2018 e un +2% per il 2019. Arrivati ad un punto così avanzato del ciclo economico, gli Stati Uniti sperano ora che la riforma fiscale voluta dall’amministrazione Trump fornisca il carburante necessario per proseguire la corsa. La misura prevede infatti un netto taglio dell’aliquota dell’imposta sulle società e ammortamenti accelerati per gli investimenti di capitale. Nei primi quattro anni, quando i tagli fiscali netti della riforma saranno pari all’incirca allo 0,9 per cento del Pil, l’effetto dello stimolo dipenderà da quanto reddito privato aggiuntivo verrà speso e dal moltiplicatore fiscale applicato a quella spesa. Se tutto andasse per il verso giusto, il beneficio potrebbe essere nell’ordine di un punto percentuale di Pil aggiuntivo ma le stime differiscono molto su questo punto. L’altra grande incognita riguarda gli effetti della guerra commerciale che l’amministrazione di Washington ha dichiarato ad alcuni Paesi, a partire dalla Cina. Il Vecchio Continente La situazione europea è decisamente meno rosea rispetto a quella degli Stati Uniti, nei confronti dei quali però il Vecchio Continente ha il vantaggio di non essere così avanti nel ciclo economico. In Europa ci sono alcuni Paesi che hanno brillantemente superato la crisi (Gran Bretagna e Germania) ed altri che si sono messi a correre solo di recente (Spagna e Portogallo). Ci sono però anche due importanti nazioni come l’Italia e la Francia che tutt’ora faticano su molti fronti e per i quali è prematuro dire che l’emergenza sia cessata. La situazione è stata efficacemente delineata da Mario Draghi pochi giorni fa. «La crescita dell’economia dell’eurozona è rimasta robusta nel quarto trimestre del 2017 e continua ad essere generalizzata nei diversi Paesi — ha detto il governatore della Banca Centrale Europea — I risultati delle ultime indagini quantitative e i dati più recenti confermano una dinamica della crescita forte e diffusa nell’economia dell’area dell’euro, che, secondo le proiezioni, dovrebbe continuare nel breve termine a un ritmo lievemente più rapido rispetto alle attese». Secondo Draghi rimane però «necessario un ampio grado di stimolo monetario» per far risalire l’inflazione, che rimane ancora molto lontana dal target del 2% fissato dall’Eurotower. Un altro punto critico è il mercato del lavoro di molti Paesi dell’unione monetaria. Le stime della Bce parlano di una crescita del Pil della zona euro che dovrebbe toccare il 2,4% quest’anno, per poi scendere all’1,9% nel 2019 e all’1,7% nel 2020. I prezzi al consumo invece dovrebbero crescere dell’1,4% quest’anno e il prossimo e accelerare all’1,7% nel 2020. I Paesi emergenti Questi Paesi, che sono stati la vera ancora di salvataggio per l’Occidente nel momenti più bui della crisi, continuano a crescere a ritmi molto sostenuti e in alcuni settori hanno ampiamente superato gli Stati Uniti e l’Europa (basti pensare al mercato immobiliare di Hong Kong). Quando la domanda interna era letteralmente crollata, sono state le commesse cinesi a far lavorare le fabbriche tedesche e italiane e oggi Pechino sta portando avanti con successo la difficile trasformazione da economia basata sull’export e sugli investimenti pubblici ad economia di consumi e di servizi. Il Fondo Monetario Internazionale prevede per l’intero continente asiatico una crescita del 5,6% nel 2017 e del 5,5% nel 2018, con Cina (rispettivamente +6,8% e +6,5%) e India (+6,7% e +7,4%) a guidare la corsa. L’incognita più grande per l’Asia, e per la Cina in particolare, è rappresentata dalle decisioni di Trump in materia di dazi doganali. Più l’inquilino della Casa Bianca deciderà di inasprire lo scontro, maggiori saranno i danni per l’economia della Repubblica Popolare che, assieme alla Germania, è il vero obiettivo delle politiche protezionistiche di Washington. </p>