Esteri

Turchia e Usa ai ferri corti, scoppia la "guerra dei visti"

Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan (lapresse)
Cresce la tensione tra Washington e Ankara: bloccati tutti i visti per i cittadini statunitensi, dopo un provvedimento analogo da parte degli Usa. Nuovo mandato d'arresto per un dipendente del consolato Usa a Istanbul. Contraccolpi pesanti su lira turca e borsa di Istanbul.
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ISTANBUL - Un nuovo confronto, la "guerra dei visti", avvelena i già non facili rapporti fra Stati Uniti e Turchia. L'ambasciata di Ankara a Washington ha annunciato che interromperà il rilascio dei visti ai cittadini americani, eccetto per quelli di immigrazione, come rappresaglia per un'analoga misura presa dagli Usa. E all'improvviso il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha annullato una conferenza stampa già prevista all'aeroporto Ataturk di Istanbul, da cui è partito in viaggio per una visita in Ucraina e Serbia. Una decisione probabilmente legata alla necessità di definire una strategia per affrontare questa nuova grave crisi diplomatica che si rischia di aggravarsi ulteriormente dopo l'emissione, da parte delle autorità turche, di un nuovo mandato d'arresto, il secondo in pochi giorni, per un dipendente del consolato Usa a Istanbul.

Le ripercussioni sulla lira turca e la borsa di Istanbul sono pesanti. Tutto parte dalla mancata consegna da parte degli Stati Uniti dell'imam Fethullah Gulen, il predicatore accusato dal presidente turco Recep Tayyip Erdogan di essere la mente del fallito golpe del 15 luglio 2016. Gli Usa hanno affermato più volte che, nonostante la mole di documenti inviati da Ankara, a loro dire "non ci sono le prove" del suo coinvolgimento nel putsch. E che dunque mancano le basi per l'estradizione. Nei mesi passati, in diverse città turche si sono svolte manifestazioni a favore del provvedimento, mentre la gente in piazza sventolava la forca bruciando manichini di Gulen e chiedendo il ripristino della pena di morte (abolita nel 2004 in vista dell'ingresso dell'Unione Europea), misura invece vista con favore adesso dal capo dello Stato.

La decisione americana di interrompere il rilascio dei visti era stata presa domenica in risposta all'arresto, la settimana scorsa, di un impiegato turco dell'ambasciata americana, Metin Topuz, accusato da Ankara di legami con il predicatore. Gulen, un tempo sodale di Erdogan e poi entrato con lui in contrasto, vive in autoesilio in Pennsylvania dal 1999, e in ambienti turchi viene considerato l'ispiratore del tentato putsch con l'aiuto della Cia. Lui ha sempre negato.

"Gli avvenimenti recenti hanno costretto il governo turco a rivalutare l'impegno del governo degli Stati Uniti a favore della sicurezza delle strutture e del personale della missione turca", ha scritto su Twitter la sede istituzionale di Ankara a Washington, "per ridurre il numero di visitatori nelle nostre rappresentanze diplomatiche e consolari negli Stati Uniti nel corso di questa valutazione, abbiamo sospeso tutti i servizi di visto per i cittadini americani di tutte le rappresentanze diplomatiche e consolari".

Durissima e veemente la reazione dell'ambasciatore Usa ad Ankara, John Bass, che ha parlato dell'arresto dell'impiegato turco nella sua sede diplomatica come di un "provvedimento privo di fondamento". E ha aggiunto: "Sono profondamente turbato dal fatto che alcune persone del governo turco siano più interessate ad alzare polveroni attraverso media che imbastiscono processi mediatici, piuttosto che cercare giustizia dinanzi ad un giudice. Una logica che mi sembra più mirata alla ricerca della vendetta che della giustizia".

Bass ha fatto queste affermazioni in una conferenza stampa convocata prima di lasciare Ankara per un nuovo incarico in Afghanistan. Un incontro a cui non sono stati invitati rappresentanti di media vicini al governo. "Ho voluto qui rappresentanti di media seri", ha spiegato, "e se alcuni non sono stati invitati è perché non li ritengo organi di stampa, considerato che seguono un copione da fiction e non i principi etici del giornalismo".

Solo due settimane fa, nella visita fatta da Erdogan a Washington, i rapporti fra Turchia e Stati Uniti sembravano tornati al sereno dopo gli otto anni di continue frizioni e incomprensioni tra il leader turco e l'allora presidente americano Barack Obama. Il capo dello Stato di Ankara aveva applaudito all'arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca augurandosi un cambio di atteggiamento. Lo stesso Trump, incontrando Erdogan, aveva detto che il presidente turco "sta diventando un mio amico".

A settembre Erdogan era arrivato a proporre uno scambio: ottenere indietro Gulen, offrendo al suo posto un pastore americano, Andrew Brunson, guida spirituale di una chiesa a Smirne, la città più multietnica e occidentale della Turchia, arrestato nell'ottobre del 2016, quindi quattro mesi dopo il fallito golpe. Il religioso è accusato, come decine di migliaia di persone incarcerate e licenziate dopo il tentato putsch, di appartenere agli ambienti gulenisti. Washington non ha però manifestato interesse alla proposta. E Ankara se l'è legata al dito.

"Mi aspettavo una sorta di allentamento della tensione", commenta Murat Yurtbilir, specialista di Studi turchi e ottomani a Canberra, "ma non si risolve la questione più rilevate: il caso Gulen". Il blocco dei visti alla Turchia mette adesso Ankara sulla stessa lista di Ciad, Iran, Libia, Corea del Nord, Siria, Venezuela e Yemen, tutti Paesi con restrizioni di viaggio da parte americana.

L'amministrazione Usa afferma che tra i visitatori provenienti da quelle nazioni potrebbero nascondersi dei terroristi. Conclude Yurtbilir: "La Turchia, che sta nel campo occidentale fin dagli anni Quaranta, si trova ora ammassata assieme ai quei Paesi? Siamo davvero al punto più basso delle relazioni fra Stati Uniti e Turchia".