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Il Sudan senza sanzioni si apre, il ministro degli Esteri: "Pronti a collaborare con l'Europa"

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Il Sudan sta rientrando nella comunità internazionale a pieno titolo: la revoca nell’ottobre scorso delle sanzioni economiche imposte dagli americani segnala che è finita la fase in cui il paese africano era considerato “uno Stato canaglia” e il governo di Khartoum un regime da isolare. Sembra raffreddato il dissidio con il Sud Sudan, legato ai grandi giacimenti di petrolio nella regione contesa di Abyei e alle necessità di esportazione del greggio (Juba deve per forza far affidamento sulle condutture che attraversano il territorio di Khartoum). Anche i conflitti interni sembrano in una fase poco attiva: il governo sudanese ha proclamato un cessate-il-fuoco unilaterale, sia nel Darfur sia nelle altre regioni come il Sud Kordofan e il Blue Nile. L’Onu segnala che i ribelli del Darfur, in particolare il Movimento di liberazione che fa riferimento a Minnie Minnawi, sono impegnati in Libia come mercenari al fianco del generale Haftar.

Per Khartoum resta un nodo importante: il mandato d’arresto della Corte penale internazionale nei confronti del presidente Omar al Bashir, con l’accusa di crimini di guerra e delitti contro l’umanità. Ma l’attività diplomatica di Khartoum, con l’avvicinamento ad Ankara e una visita ufficiale di Bashir a Mosca, e soprattutto gli incontri dello stesso presidente sudanese con il segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres, potrebbe preludere a qualche cambiamento. Rimane difficile il rapporto con l’Egitto e l’Etiopia: con il primo, per la deposizione del presidente Morsi e la messa fuori legge dei Fratelli musulmani. Con la seconda, per la diga pianificata da Addis Abeba sul Nilo azzurro.
 
Il ministro degli Esteri Ibrahim Ghandour, a Roma per il vertice euro-africano, ci spiega queste evoluzioni.
Ministro Gandhour, che cosa cambia per il Sudan dopo la revoca delle sanzioni imposte dagli Stati Uniti?
«Dopo la decisione di ottobre del presidente Trump di togliere le sanzioni, il Sudan è di nuovo incluso nell’economia globale. Come sa, le sanzioni per oltre vent’anni impedivano al Sudan, alle banche sudanesi, alle persone e al governo di aver rapporti con istituzioni finanziarie, sia private che internazionali. Adesso inizia una nuova era, il Sudan sta recuperando il suo posto: siamo di nuovo nell’economia internazionale e questo faciliterà gli investitori dall’estero perché tornino».
Perché Washington ha cancellato le sanzioni? Forse perché il Sudan si stava avvicinando troppo alla Cina?
«E’ stata una decisione politica, come quella che imponeva le sanzioni stesse. La decisione in realtà era già stata presa dall’Amministrazione Obama. Quanto alla Cina: noi abbiamo un ottimo rapporto con Pechino, ma nelle trattative gli americani non ne hanno mai parlato».
E’ stata presa in considerazione l’ipotesi di un avvicinamento all’Iran?
«No. Non abbiamo alcun rapporto con l’Iran. La decisione di abrogare le sanzioni è stata basata puramente su rapporti bilaterali, sulla base di interessi comuni per la pace nella regione e nella lotta al terrorismo».
Quale sarà il ruolo del Sudan?
«Il Sudan ha un ruolo importante, che può giocare da solo o in organizzazioni multilaterali. Siamo un punto di riferimento per la stabilità, in mezzo a nazioni che sono in conflitto. Attorno a noi diversi paesi hanno problemi, a partire da Sud Sudan, Repubblica centrafricana o Libia. Abbiamo un ruolo da giocare anche nello Yemen, nell’area dei Grandi laghi, o fra Etiopia ed Egitto, sulla diga».
Come sono al momento i rapporti con l’Egitto?
«Da Roma partirò proprio per il Cairo, per un incontro con il collega egiziano, seguendo le indicazioni dei rispettivi presidenti, al Bashir e al Sisi, che si sono appena incontrati ad Addis Abeba. L’incontro è a livello ministeriale, per discutere punti di comune interesse, per mettere il rapporto sulla giusta via. Il nostro non è un rapporto fra paesi, ma fra popoli, com’è stato storicamente da migliaia di anni. I due capi di Stato ci hanno chiesto di sistemare le differenze di vedute e questo faremo».
E con Etiopia ed Eritrea?
«I problemi con l’Etiopia, legati alla diga in costruzione sul Nilo, sono superati. Addis Abeba ha tutto il diritto di costruire l’impianto, purché il flusso dell’acqua non ne risenta. Con Asmara abbiamo avuto qualche discussione, ma speriamo di superare le differenze presto. Siamo uno dei pochissimi paesi che ha relazioni aperte con l’Eritrea, per noi è un vicino molto importante, abbiamo progetti comuni e vogliamo risolvere ogni problema».
E con l’Europa?
«Il Sudan si è impegnato su temi come l’emigrazione illegale e il traffico di persone. Ma per risolvere questi problemi, bisogna affrontare le cause che ne stanno alla radice, cioè i conflitti di molta parte del continente africano. Queste guerre causano sofferenza, spargimento di sangue, povertà e sottosviluppo: sono il motivo per cui giovani uomini e donne lasciano i loro paesi e sono pronti a morire per attraversare il Mediterraneo. Per questo il Sudan vuole la pace nei suoi territori e vuole aiutare i popoli fratelli a raggiungere questo obiettivo. Crediamo che la pace sia cruciale per lo sviluppo e la stabilità in ogni paese».
Che cosa ne pensano i colleghi degli altri paesi, Italia in testa?
«Credo che molti colleghi approvino questo punto di vista, la necessità di guardare alle cause e non solo ai sintomi. L’Europa può continuare a spendere soldi per sempre, ma i problemi resteranno, finché le cause non saranno affrontate».
Com’è la situazione interna in Darfur, nel Nord Kordofan e nel Blue Nile?
«E’ calma, non ci sono combattimenti al momento. I ribelli del Darfur sono impegnati in Libia o in Sud Sudan, e comunque il governo ha dichiarato un cessate il fuoco unilaterale da un anno e mezzo, che è stato prolungato anche con un altro accordo appena firmato in Etiopia».
Quale è la situazione del presidente Bashir, in rapporto con le accuse della Corte penale internazionale?
«Per noi, la Corte è sempre stata uno strumento politico. Il Sudan non ha mai aderito al Trattato di Roma, per questo motivo. Credo che comunque la situazione legale del presidente possa cambiare. Dai summit dell’Unione africana a Johannesburg, Addis Abeba e Kigali è venuta la richiesta che sia il Consiglio di Sicurezza dell’Onu a occuparsene. Pochi giorni fa ad Addis i leader africani si sono espressi all’unanimità per raccomandare che questo problema sia affrontata e risolto, anche perché il presidente Bashir ha avuto un ruolo importante per raggiungere la pace nella regione».
Un anno fa lei ha detto a Repubblica che Khartoum era pronta a fondare una Corte penale dell’Africa. A che punto è il progetto?
«Non è una decisione di Khartoum, ma una scelta dell’Africa, confermata negli ultimi summit. L’Arica deve costruire la propria Corte di giustizia e per i diritti umani. Il Sudan è uno dei promotori, già undici paesi hanno firmato. Quando ne avremo un’altra dozzina, potremo partire».
Che cosa si aspetta dall’Europa?
«Europa e Africa sono vicine, divise solo dal Mediterraneo: prima sembrava una grande distanza, ora sappiamo che non è così. Il Sudan coopera ed è pronto a collaborare di più. L’Europa adesso considera l’Africa come una realtà unica, un atteggiamento che è stato evidente al vertice di Abidjan. Speriamo che continui così».