Esteri

Sri Lanka, torna l'incubo della guerra: estremisti buddisti contro la minoranza musulmana

Una delle moschee distrutte dagli integralisti buddisti nella città di Kandy (ansa)
Commandi di estremisti continuano ad attaccare le proprietà e i luoghi di culto dei musulmani di Kandy, città sacra dello Sri Lanka, dove viene custodito un dente del Budda. Il presidente ha dichiarato lo stato di emergenza e la polizia arresta i presunti responsabili, buddisti dell'etnia cingalese, per le violenze contro la minoranza
 
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BANGKOK - Sembravano tempi passati quelli delle leggi d’emergenza, dei coprifuoco, delle aree proibite. Invece il paradiso dello Sri Lanka da qualche giorno è ripiombato nell’incubo di una nuova guerra, non più quella delle minoranze tamil contro i cingalesi che li trattavano da cittadini di serie B e continuano a trattarli lo stesso anche dopo la vittoria militare sulle “Tigri” separatiste dell’Elaam. Stavolta a infiammare gli animi sono gli antichi conflitti tra musulmani e maggioranza buddista cingalese, nel Paese dove questa religione si trasferì per prima dall’India assieme a una reliquia veneratissima che si trova a Kandy, uno dei centri delle rivolte di questi giorni con almeno due morti e decine di feriti.

Il presidente Maithripala Sirisena ha chiuso tutti i social network e dichiarato lo stato di emergenza in tutta l’isola per 10 giorni dopo che orde di buddhisti il 4 marzo hanno distrutto case e attività dei musulmani nelle aree di Digana e Teldeniya a Kandy, città sacra per il celebre dente del Budda. Martedì il ritrovamento tra le fiamme di una casa bruciata del corpo di un giovane musulmano rimasto intrappolato ha mosso la rabbia in senso inverso. Non è la prima volta che accade, ma ogni volta sembra che niente sia cambiato nei livelli di odio e di paura della maggioranza di trovarsi “invasa” dai musulmani com’è accaduto allo stato buddhista dell’Arakan. Anche in passato gli islamici hanno reagito con esasperazione e violenza com’è successo ieri, con due o cinque morti e decine di feriti negli scontri tra le comunità malamente domati dagli agenti.

Uno dei primi episodi di quest’ultima fiammata avvenne a Teldeniya il 22 febbraio dopo che un buddista locale era stato gravemente ferito durante una banale lite per il traffico. Sia i cingalesi che gli anziani musulmani intervenuti sul posto avevano risolto amichevolmente la questione senza chiamare la polizia e pagando un risarcimento alla vittima. Ma quando l'uomo è morto a causa delle ferite il 3 marzo, i musulmani si sono barricati in casa mentre gruppi numerosi di cittadini giravano per le strade con torce e armi in mano. Decine di negozi, aziende e case sono stati date alle fiamme e una moschea danneggiata. Il risultato, dopo 27 arresti, è l’intervento di una Task Force speciale di 200 soldati per rafforzare la polizia. Una misura volutamente forte per evitare altre accuse contro il suo governo che tornerà presto alle urne, di non aver preso in tempo le misure per evitare l’allargamento dei conflitti.

Con l’esperienza della guerra conclusa da pochi anni il presidente Sirisena, salito al potere per togliere al Paese l’impronta del “presidente-comandante” militare Rajapaksa che sconfisse le “Tigri” ribelli, si ritrova adesso a dover usare gli stessi metodi forti, senza aver prima sperimentato una via forse più difficile, ma con meno conseguenze posteriori di quelle visibili nell’Arakan birmano.

Per ritrovare un livello di odio e violenza analogo nello Sri Lanka basta tornare al 2014, quando esplosero le rivolte anti-musulmane di Aluthgama, guidate dai fondamentalisti buddisti del Bodhu Bala Sena del monaco Gnanasara Thero e di Ravana Balaya. Un semplice alterco tra un giovane musulmano e l'autista di un veicolo con a bordo un importante monaco Bhikku fu il pretesto per risvegliare l’odio anti-islamico in tutto il distretto di Kalutara. Anche in quell’occasione quattro i morti, decine i feriti, esodi massicci di intere popolazioni, casa requisite. Isomma più o meno ciò che è avvenuto in larghissima scala nell’Arakan, ma l’episodio segnò il bivio oltre il quale il clero fondamentalista dell’ex Ceylon non è disposto ad accettare mediazioni.
Già durante lo tsunami del 2004 le autorità imposero limiti alle donazioni per le comunità islamiche su pressione dei religiosi.

E’ lo stesso messaggio che sembra giungere oggi attraverso le cronache degli assalti anti-musulmani. Il rischio potenziale di radicalizzazione è paragonabile a quello dei gruppi di Rohingya che si sono armati creando non pochi ostacoli al processo di pace. Difficile dire adesso se il piccolo e strategico Paese che si è stretto più vicino che mai alla Cina riuscirà a disinnescare uno dei possibili motivi di conflitto strategico e geopolitico nell’area. Se raffrontata alla situazione dell’Arakan birmano il problema appare certamente ancora minuscolo, ma ci sono in germe tutte le stesse caratteristiche. Non tutti sanno che sono dello Sri Lanka molti maestri e istruttori dei monaci birmani che ispirano oggi la rivolta anti-islamica nello stato dell’Arakan. La loro influenza va dai generalissimi alla leader politica del Paese Aung San Suu Kyi.