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L'orgoglio di Nole e Kevin

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Sarà che quanto rimane dei Fab Four continua a dettare legge nel circuito (gli ultimi sette Slam sono stati vinti da Roger Federer, tre, da Rafael Nadal, altrettanti, e oggi da Novak Djokovic) o sarà che, con rare eccezioni, i giganti del servizio non la spuntano con i giocatori più dotati e attrezzati, fatto sta che la finale di Wimbledon 2018 è a lungo a senso unico. Nonostante un terzo set equilibrato, il campione serbo da due anni costretto a ruoli di comprimario tiene a bada Kevin Anderson in modi e misure non equivocabili: tre set (6-2 6-2 7-6), due ore e 19 minuti di scambi, tasso di errori minimo (13 contro 32), prevalenza negli indicatori principali, dall'efficacia della prima di servizio a quella delle risposte, escluso il totale dei vincenti. 
 
Evidentemente ancora stremato dalla maratona di venerdì con John Isner e dalle oltre 21 ore complessive trascorse in campo nel corso del torneo, nei primi due set il sudafricano non oppone resistenza a Djokovic, sempre più sicuro dei propri mezzi. Nel terzo parziale ritrova misura e lucidità, serve come sa, spreca le chance di ottenere il break a favore nel settimo e nel nono game.

Gli scambi si allungano e a tratti a dominare è Anderson, che nel dodicesimo game si procura tre set point, che Nole rintuzza. Il tie break mette in evidenza la determinazione dell'ex numero 1 ATP: risponde al servizio con estrema precisione e va a chiudere sul 7-3 con uno micidiale kick al centro ribattuto a rete. Eppure non si raggiungono due finali di Slam in dieci mesi - agli Us Open il settembre scorso, a Wimbledon oggi - se non si è uno dei quattro o cinque migliori giocatori al mondo. Come Kevin sarà ufficialmente da domani (numero 5 ATP). È stato lui il primo sudafricano a raggiungere l'ultimo atto dei Championships da quando nel 1921 Brian "Babe" Norton sprecò due match point nel quinto set e poi lasciò il titolo a Bill "Big Bill" Tilden, il più grande prima di Roger Federer (4-6 2-6 6-1 6-0 7-5). Archiviato il risultato di oggi, Johan Kriek resta l'ultimo sudafricano ad aver vinto uno Slam, a Melbourne nel 1982 ai danni dell'americano Steve Danton (6-3 6-3 6-2) nella replica della finale dell'anno precedente, appena più combattuta (6-2 7-6 6-7 6-4).
 
Secondo me la storia di Kevin, classe 1986, va raccontata proprio nel giorno della sua sconfitta più bruciante: se non ora, quando? Anzitutto, pare che mamma Barbara e papà Michael avessero scelto il suo nome quando il sudafricano Kevin Curren fu battuto in finale da Mats Wilander agli Australian Open del 1984 (6-7 6-4 7-6 6-2). Come capita spesso, furono loro a indirizzare Kevin e Greg, il fratello minore, verso il tennis prima ancora delle elementari, sperando potessero un giorno lasciare Hurlingham, sobborgo di Johannesburg. Barbara lo dice chiaro: "Sono cresciuti entrambi dedicandosi intensamente al tennis, giorno dopo giorno". Tutto iniziò con un pezzo di spago e una vecchia pallina, un aggeggio che i bambini chiamavano "swingball". Con le prime racchette presero a sparare colpi contro un muro, per ore e ore. Una volta passati sui campi da tennis, i ragazzi furono seguiti personalmente da Michael. 
 
Anni duri per la famiglia Anderson. Barbara si svegliava alle 5 del mattino per portare i figli al Randburg Health and Racket Club a nuotare e in palestra a rinforzare i muscoli prima della scuola. Kevin e Greg - che adesso vive a New York dove dirige una scuola di tennis - passavano il pomeriggio in campo con il padre-coach. Talvolta Barbara li accompagnava a Pretoria ad affrontare i coetanei più forti di loro. Impararono a memoria il manuale sul tennis totale di Chuck Kriese, guardavano le partite videoregistrate dei grandi campioni, si allenavano persino a Natale con la mamma e la nonna come raccattapalle: "Seguivamo i loro scambi e intanto preparavamo il pranzo festivo". Ricorda Kevin: "Papà era maniacale con le tecniche di preparazione. Per esempio, mi ha insegnato a curare molto la mobilità e a mimare i colpi davanti allo specchio". Dopo un buon percorso come junior, anziché diventare subito professionista Kevin decise di accettare l'offerta della borsa di studio dell'ateneo dell'Illinois a Urbana-Champaign. Una scelta intelligente per crescere senza troppe pressioni. All'università conobbe Kelsey O'Neal, promettente golfista, che ha sposato nel 2011 e cura un seguitissimo blog, Tour Wife Tales.
 
"Avevo capito quand'era adolescente che sarebbe diventato un top player", racconta John-Laffnie De Jaeger, eccellente doppista e capitano della squadra sudafricana di Davis. "Aveva già un eccezionale senso del dovere, oltre alla testa e ai colpi che servono". Ammette Kevin: "Sì, sono una persona piuttosto strutturata". Fece benissimo nel campionato universitario americano, vincendo quasi tutto. Solo nel 2007, a 21 anni, entrò nel circuito ATP. Ora è uno dei membri più influenti dell'ATP Players Council.
 
Da allora, Anderson ha raggiunto molte finali ATP (tredici, compresa quello di oggi) ma ne ha vinte solo quattro, a Johannesburg nel 2011, a Delray Beach nel 2012, a Winston-Salem due anni fa e al New York indoor di quest'anno. L'emozione spesso lo paralizza, come oggi per un'ora e un quarto. Una carriera in salita, la sua, segnata da parecchi infortuni, tra i quali quello all'anca  - insieme ai contemporanei guai alla caviglia, all'inguine, al ginocchio sinistro e alla spalla destra - che ha provocato la perdita di decine di posizioni nel ranking ATP tra il 2016 e il 2017. Dopo tanti anni trascorsi negli USA, sta per chiedere la cittadinanza americana, come fece Kriek dopo il successo in Australia nel 1981. Ma assicura che il suo cuore batte per il Sudafrica.
Insomma, Djokovic ha battuto un avversario tra i più difficili del circuito, uno che ha sofferto per arrivare dov'è ora. Uno che troveremo altre volte tra i protagonisti degli Slam.

Twitter @claudiogiua