Mondo Solidale

Quel bambino e la sorellina neonata: in una foto il dramma Rohingya

La storia di un nucleo familiare fuggito dal villaggio in fiamme nel racconto della madre agli operatori di MsF nel campo profughi in Bangladesh
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ROMA - Un bimbo di sette anni chino sulla sorellina di tre mesi cerca di alleviarle la fame con poche patate ammorbidite con l’acqua. Lo sguardo è drammaticamente dolce e lui è intento a fare qualcosa che non sa fare, che la vita non avrebbe dovuto costringerlo a imparare. Mohamed, Ruzina e Humaira. Una piccolo nucleo famigliare dell’etnia musulmana dei Rohingya, che esattamente sei mesi fa, il 25 agosto 2017, giorno dell’esodo di massa, è fuggito dallo stato di Rakhine in Myanmar per cercare la salvezza nel vicino Bangladesh. La loro è una storia a lieto fine, se così si può definire. Sono ancora vivi per poterla raccontare.

Tre giorni per arrivare in Bangladesh attraversando la foresta. Humaira ha 25 anni, Mohamed 7 e la piccola Ruzina 5 mesi. Quando sono fuggiti lei era incinta. “Mio marito è stato preso dall’esercito del Myanmar – ha raccontato a un operatore di Medici senza Frontiere – ci hanno buttato fuori dalle nostre case, le hanno bruciate e rase al suolo. Poi ci hanno picchiato duramente. Quando siamo scappati, io ero già incinta di parecchi mesi”. Ci sono voluti circa tre giorni per arrivare in Bangladesh.  Hanno attraversato la foresta in uno stato di panico, nascondendosi  per non essere uccisi e cibandosi delle foglie degli alberi. Arrivati  sulle rive del fiume, si sono imbarcati, e durante la traversata Humaira ha iniziato ad ad avere le doglie. Ed è nata Razine.

L’hanno aiutata una donna e alcuni marinai. “Sono entrata in travaglio mentre eravamo a bordo di un’imbarcazione. In tutto il travaglio è durato tre ore. Durante il viaggio sono stata molto male, è stata dura. Ho pensato solo a partorire mia figlia e portarla via dalle violenze. Ho pensato a scappare il più lontano possibile e ho creduto solo in Allah. Dopo essere arrivati a Cox’s Bazar, siamo stati portati da un autobus all’accampamento di Jamtoli. Mi è stata data una tenda dove vivere con i miei due figli”.
E’ qui, a gennaio, in questo accampamento, che un’equipe  di Msf  l’ha trovata completamente disidratata e in stato di shock. E’ stata portata nel centro di assistenza medica primaria di Msf , dove è stata reidratata con una cannula.

In una capanna di bambù coperta con un telo di plastica. La piccola famiglia Faisal ora vive in una capanna fatta di tronchi di bambu legati assieme, coperta da un telo di plastica. Ruzina si trova ancora in un centro di assistenza per neonati dove viene nutrita artificialmente. Mohamed invece, tra un tiro di pallone e l’altro con i bambini del campo, si occupa di tutto: va a prendere l’acqua e la legna, lava i vestiti e si prende cura della sua mamma. Quando racconta della traversata dal Myanmar al Bangladesh, lo fa con una naturalezza disarmante. Come tantissimi altri, dormono per terra su stuoie arrangiate. Pochi attrezzi per cucinare, due stracci per vestirsi. Non hanno niente. Le baracche sono ammassate l’una all’altra. Un soffio di vento più forte le può far crollare e la stagione delle piogge è vicina.

La furia distruttiva dell'esercito. Sei mesi fa, in seguito a ripetuti attacchi a stazioni di polizia effettuati dall'Arakan Rohingya Salvation Army (Arsa) l'esercito birmano ha reagito con una furia distruttiva che ha portato a incendi, violenze e rastrellamenti, costringendo la minoranza etnica musulmana dei Rohingya alla fuga. Si stima che siano fuggite più di 650mila persone. Oltre seimila sono morte.

A Cox's Bazar, un milione di profughi. Le équipe di Medici Senza Frontiere (Msf) è presente sul posto con più di duemila operatori umanitari, di cui circa 15 italiani. “Negli ultimi sei mesi sono arrivate oltre settecentomila persone – racconta Sara Creta di Msf da Cox’s Bazar – che si sono aggiunte alle 200mila che erano già qui, arrivate a causa di altri movimenti precedenti. In tutto c’è un milione di rifugiati. Abbiamo diverse cliniche, centri sanitari e ospedali. Humaira e la sua famiglia stanno cercando di recuperare una vita diciamo normale. Per lei l’unica speranza sono i suoi figli. Abbiamo dei consulenti che cercano di sensibilizzare e supportare le persone per prevenire le malattie e incentivare il ricorso alle vaccinazioni. Sono sempre stupita dalla naturalezza di questi bambini, come Mohamed. Nei loro occhi leggo un senso di tranquillità incredibile, nonostante tutto quello che hanno visto e vissuto. Qui nei campi si sentono al sicuro e protetti. Ma ora è importante capire il futuro che li aspetta".

L'incubo della stagione delle piogge in arrivo. In Bangladesh come in tutta l’area è in arrivo la stagione delle piogge e la situazione potrebbe peggiorare. “I monsoni possono causare importanti inondazioni. E la situazione nei campi è talmente drammatica, con le case ammassate una sull’altra, che le piogge potrebbero provocare l’aumento delle malattie. La maggior parte dei bambini non è stata vaccinata – continua Sara - Oggi le nostre equipe sul campo hanno almeno 4.000 casi di difterite per lo più bambini e ragazzi. Molti sono morti. La nostra presenza ha garantito cure e vaccini, altrimenti l’epidemia sarebbe stata molto più violenta e devastante. Con i monsoni  sarà più difficile continuare a dare loro aiuti e cure perché i campi sorgono sulla sabbia, sarà impossibile raggiungere le persone, spostarsi, e la baracche dove vivono che sono precarie, potrebbero crollare.