Mondo Solidale

Migranti, "I dannati della terra", uno scandalo italiano rimosso o ignorato

Il rapporto-2018 di Medici per i Diritti Umani (Medu) sulla condizione di vita e di lavoro dei lavoratori migranti stranieri nella Piana di Gioia Tauro. Almeno 3500 persone in vari insediamenti informali che lavorano per i produttori locali di arance, clementine e kiwi in condizioni di severo sfruttamento, nell'illegalità e in situazioni abitative indecenti e degradanti per la dignità di ogni essere umano

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ROMA - “Per il popolo colonizzato il valore primordiale, perché il più concreto, è innanzitutto la terra: la terra che deve assicurare il pane e, sopra ogni cosa, la dignità”. La parole di Frantz Fanon, autore de "I dannati della terra", testo arricchito da una prefazione di Jean-Paul Sartre, fanno da incipit alla presentazione del ricco rapporto-2018 di Medici per i Diritti Umani (Medu) sulla condizione di vita e di lavoro dei lavoratori migranti stranieri nella piana di Gioia Tauro. La scelta di del riferimento al saggio di Fanon non è casuale,  perché rappresenta un'opera  fondamentale per conoscere le origini del "terzomondismo" e analizzare, partendo dalla rivoluzione algerina, il processo di sviluppo della consapevolezza dei popoli colonizzati.

"I dannati della terra": rapporto sulle condizioni di vita e di lavoro dei braccianti stranieri



Sfruttamento, illegalità, alloggi indecenti. Dunque, nella Sala della Stampa Estera a Roma, “I dannati della terra" - questo il titolo del rapporto ricco di dati - è stato illustrato partendo dalle attività delle cliniche mobili di Medu, dal dicembre 2017 fino ad aprile 2018, nella Piana di Gioia Tauro, per il quinto anno consecutivo, che hanno assicurato assistenza socio-sanitaria ai lavoratori migranti. Migliaia di persone che anche quest’anno sono arrivate nella zona durante la stagione agrumicola. Si parla di almeno 3500 persone, distribuite tra i vari insediamenti informali sparsi nella Piana, che hanno fornito manodopera flessibile e a basso costo ai produttori locali di arance, clementine e kiwi. Persone che hanno lavorato in condizioni di severo sfruttamento, sottoposti a pratiche illecite e situazioni abitative indecenti e degradanti per la dignità di ogni essere umano e in uno stato di irreversibile marginalizzazione. Ecco, i caratteri dominanti del quadro delineato dal rapporto è questo. E poco o nulla è cambiato rispetto agli anni passati.

Sono ancora uno scandalo italiano. Chiaro e inequivocabili il giudizio di Medu: "Otto anni dopo la cosiddetta “rivolta di Rosarno”, i grandi ghetti di lavoratori migranti nella Piana di Gioia Tauro rappresentano ancora uno scandalo italiano, rimosso, di fatto, dal dibattito pubblico e dalle istituzioni politiche, le quali sembrano incapaci di qualsiasi iniziativa concreta e di largo respiro. Oggi più che mai, la Piana di Gioia Tauro è il luogo dove l’incontro tra il sistema dell’economia globalizzata, le contraddizioni nella gestione del fenomeno migratorio nel nostro paese e i nodi irrisolti ella questione meridionale produce i suoi frutti più nefasti".

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Dove si concentrano i lavoratori. La gran parte dei braccianti continua a concentrarsi nella zona industriale di San Ferdinando, a pochi passi da Rosarno, in particolare nella vecchia tendopoli (che accoglie almeno il 60% dei lavoratori migranti stagionali della zona), in un capannone adiacente e nella vecchia fabbrica a poche centinaia di metri di distanza. Sono circa 3000 le persone che trovano alloggio qui, tra cumuli di immondizia, bagni maleodoranti e fatiscenti, bombole a gas per riscaldare cibo e acqua, pochi generatori a benzina, materassi a terra o posizionati su vecchie reti e l’odore nauseabondo di plastica e rifiuti bruciati. Le preoccupanti condizioni igienico-sanitarie, aggravate dalla mancanza di acqua potabile, ed i frequenti roghi che hanno in più occasioni ridotto in cenere le baracche ed i pochi averi e documenti degli abitanti (l’ultimo, il 27 gennaio scorso, ha registrato una vittima, Becky Moses, ed ha lasciato senza casa circa 600 persone nella vecchia tendopoli) rendono la vita in questi luoghi quanto mai precaria e a rischio.

Gli interventi frammentari delle istituzioni. Gli interventi istituzionali restano frammentari, parziali e inefficaci. Nel mese di agosto dell’anno scorso è stata allestita un’ennesima tendopoli, la terza in ordine di tempo, che non ha tuttavia fornito una risposta adeguata – dal punto di vista numerico, logistico e dei servizi offerti – ai bisogni alloggiativi dei lavoratori migranti: con 500 posti disponibili a fronte delle oltre 3000 persone presenti, in assenza di assistenza medica, sanitaria e socio-legale e di mediatori culturali, si tratta ancora una volta di una soluzione di carattere puramente emergenziale, che confina le persone in una zona isolata e lontana da qualsiasi possibilità di integrazione ed inserimento sociale. Un numero difficilmente quantificabile di persone si distribuisce anche tra i numerosi casolari abbandonati che popolano le campagne della Piana e che accolgono i lavoratori migranti tra mura umide e fredde, senza luce né bagni, mentre l’acqua viene attinta da fontane nei dintorni e trasportata in contenitori in bilico sulle biciclette.

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Le attività delle cliniche mobili. Nei cinque mesi di attività la clinica mobile di MEDU ha prestato assistenza a 484 persone, realizzando in totale 662 visite. Si tratta per lo più di giovani lavoratori, con un’età media di 29 anni, provenienti dall’Africa sub-sahariana occidentale (soprattutto Mali, Senegal, Gambia, Guinea Conakry e Costa d’Avorio). Non mancano le donne, circa 100 provenienti dalla Nigeria, quasi certamente vittime di tratta a scopo di prostituzione. Il 67% delle persone assistite è in Italia da meno di 3 anni, ma c’è anche chi vive nel paese da più di 10 anni (4,4%) ed è finito nel ghetto di San Ferdinando-Rosarno dopo aver perso il lavoro nelle fabbriche del nord Italia o dopo aver perso il titolo di soggiorno (soprattutto di lavoro, per mancanza di risorse economiche ritenute sufficienti al rinnovo).

Oltre la metà di loro non conosce l'italiano. Più della metà dei pazienti ha una conoscenza scarsa della lingua italiana, a testimonianza delle gravi carenze del sistema di accoglienza, di cui la maggior parte delle persone ha usufruito. Dal punto di vista giuridico, oltre il 90% dei lavoratori incontrati è regolarmente soggiornante (92,65%, con un aumento di 13 punti percentuali rispetto alla scorsa stagione). La maggior parte è in possesso di un permesso di soggiorno per motivi umanitari (45%) o per richiesta asilo (41,4%, di cui il 33% ricorrenti in primo o secondo grado avverso la decisione negativa della Commissione Territoriale). Oltre il 7% è titolare di un permesso per protezione internazionale (asilo o protezione sussidiaria).

Meno di 3 su 10 hanno un contratto. Nonostante la regolarità del soggiorno, meno di 3 persone su 10 lavorano con contratto (27,82%), con un lieve, ma insufficiente, incremento rispetto agli anni precedenti: erano il 21% nella stagione 2016-2017, l’11% nella stagione 2014-2015). Nella quasi totalità dei casi, tuttavia, il possesso della lettera di assunzione o di un contratto formale non si accompagna al rilascio della busta paga, alla denuncia corretta delle giornate lavorate ed al rispetto delle condizioni di lavoro così come stabilite dalla normativa nazionale o provinciale di settore e l’accesso alla disoccupazione agricola risulta precluso alla gran parte dei lavoratori. Si tratta di dati particolarmente allarmanti, che denotano condizioni lavorative di sfruttamento o caratterizzate dal mancato rispetto dei diritti e delle tutele fondamentali dei lavoratori agricoli, che pure rappresentano tuttora il carburante per l’economia locale.

Condizioni che pregiudicano la salute. Dal punto di vista sanitario, le precarie condizioni di vita e di lavoro pregiudicano in maniera importante la salute fisica e mentale dei lavoratori stagionali. Tra le patologie più frequentemente riscontrate, le principali interessano infatti l’apparato respiratorio (22,06% dei pazienti) e digerente (19,12%), riconducibili allo stato d’indigenza e di precarietà sociale e abitativa, ed il sistema osteoarticolare (21,43%), da ricollegare particolarmente ad un’intensa attività lavorativa. Alcune persone inoltre presentano segni riconducibili a torture e trattamenti inumani e degradanti, per lo più connessi alla permanenza in Libia, e disturbi di natura psicologica. Oltre che alle attività di cura, il team della clinica mobile si è dedicato all’orientamento ai servizi socio-sanitari territoriali, anche al fine di aumentare la consapevolezza dei pazienti in relazione ai propri diritti. La dispersione sul territorio e la difficoltà a raggiungere autonomamente i servizi, gli orari di accesso limitati e la complessità delle procedure da seguire, rendono tuttavia il percorso di accesso alle cure frammentato e di difficile comprensione.

Finora solo parole e "protocolli" su pezzi di carta. ma Non sono mancate, nel corso degli ultimi anni, le dichiarazioni da parte delle istituzioni per un maggiore impegno in direzione di un miglioramento delle condizioni complessive di vita e lavoro dei braccianti stagionali: dal “Protocollo operativo in materia di accoglienza ed integrazione degli immigrati nella Piana di Gioia Tauro”, firmato a febbraio 2016 dalle principali istituzioni territoriali (Prefettura, Regione, Provincia di Reggio Calabria, Comuni di Rosarno e San Ferdinando) in cui si delineava un impegno ad assicurare “la individuazione e celere realizzazione di politiche attive di accoglienza ed integrazione nel tessuto sociale locale […]” fino al recente Protocollo sottoscritto a marzo 2018 per la partecipazione della Città metropolitana di Reggio Calabria agli interventi in materia di inclusione dei cittadini immigrati nell’area del Comune di San Ferdinando, che prevede lo sviluppo di iniziative progettuali di integrazione sociale e di inserimento lavorativo degli stranieri specie in agricoltura. Ma quello che si è registrato finora è tuttavia un impegno sulla carta e a parole che non si è ancora tradotto in azioni concrete in grado di porre limiti al degrado e allo sfruttamento e di dare il via ad un processo di inclusione reale e tangibile capace di generare ricadute positive a beneficio di tutto il territorio.