Mondo Solidale

Niger, i sudanesi prima accolti, poi ricacciati e abbandonati nel deserto

Reportage. La deportazione di 132 persone lasciate al confine con la Libia fa temere per la loro sorte, ospitati in parte da UNHCR con l'Ong italiana COOPI. Testimonianze: "Siamo tutti in fuga da anni, abbiamo cercato lavoro in Libia per mantenere le famiglie, finché ci hanno detto che in Niger c'era sicurezza". I sospetti che fra loro ci siano combattenti di milizie del Darfur

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AGADEZ - In fuga da decenni, oltre 1700 sudanesi sono arrivati a Agadez, in Niger, negli ultimi mesi. La deportazione di 132 fra loro, lasciati nel deserto al confine con la Libia, fa però temere per la sorte del gruppo, ospitato in parte da UNHCR con l'italiana COOPI. I primi, racconta Bader, sono arrivati a ottobre 2017. "Siamo tutti in fuga da anni, abbiamo cercato lavoro in Libia per mantenere le famiglie, finché ci hanno detto che in Niger c'era sicurezza", spiega l'uomo, che preferisce rimanere anonimo. Attorno, sulle stuoie di paglia di un cortile inondato dal sole, alla periferia di Agadez, una piccola folla mormora "mass media, mass media". Sarebbero i discorsi sugli "hotspot nel Sahel", del presidente francese Macron, rimbalzati sui media internazionali la scorsa estate, ad averli portati qui.

I primi arrivi. "Sono arrivati in piccoli gruppi, e all'inizio li abbiamo ospitati nel nostro centro", spiega Lincoln Gangair, responsabile del centro di transito ad Agadez dell'OIM, l'Organizzazione Internazionale per le Migrazioni. Da gennaio però, UNHCR - l'Alto Commissariato per i Rifugiati - apre per la prima volta dei centri d'accoglienza nella città nel cuore del Niger, alle porte del Sahara. Le due agenzie ONU devono offrire delle soluzioni per chi approda a Agadez: una protezione per i rifugiati, il rimpatrio volontario per chi è considerato migrante economico.

Centri per rifugiati ad Agadez. Per i sudanesi, rientrare nel paese d'origine non è un opzione. "Siamo scappati al genocidio, ai crimini del presidente Al-Bashir, alle violenze sessuali, ai bombardamenti", racconta un uomo, "tornare sarebbe la morte". Così appena inaugurati, i centri aperti da UNHCR con l'italiana COOPI si riempiono subito. Esauriti i 500 posti disponibili, altri sudanesi dormono per strada, finché il governo individua alcuni lotti, alla periferia di Agadez. Centinaia di persone vengono alloggiate in cortili in terra battuta, attrezzati con tettoie di lamiera e toilettes rudimentali.

Il maxi raid. E' in questo contesto che, nei primi giorni di maggio, le forze di sicurezza di Agadez entrano nel quartiere. Alcune famiglie sudanesi hanno tirato delle tende all'esterno dei cortili, per avere più spazio per cucinare e dormire. Incomprensioni e piccoli litigi alimentano la tensione fra abitanti del posto e rifugiati. Centoquarantacinque persone vengono arrestate, in una maxi-operazione; 10 di loro, fra cui alcune donne, sono rilasciate poco dopo. Degli altri non si sa più nulla. Fino a quando un uomo torna con una ferita, dicendo di essere scappato insieme ad altri due, mentre venivano caricati su un camion.  

La deportazione. "Non sapevamo dove fossero", dice Bader per telefono, preoccupato per la presenza continua della polizia, "che ci obbliga a restare all'interno dei cortili". La notizia della deportazione arriva pochi giorni dopo. A confermarla, lo stesso ministero degli interni del Niger, per cui "si trattava di cercatori d'oro e banditi, protagonisti di attacchi a mano armata e traffici di droga, nulla a che fare con dei rifugiati". La priorità, spiega la fonte del ministero, è "la sicurezza, e su questo non transigiamo".

Lasciati nel deserto. Sempre secondo il ministero, condotto con mano decisa da Mohamed Bazoum, segretario del partito al potere, "in gran parte erano combattenti agguerriti al soldo di Haftar nel sud libico, che hanno contribuito a destabilizzare". In 132, caricati su camion, sarebbero stati condotti alla frontiera con la Libia, spiegano dalla capitale Niamey. Diverse fonti parlano di Madama, avamposto militare nigerino e francese, 100 chilometri a sud del confine con la Libia, lungo la pista principale che attraversa il Sahara centrale.

Rischi di tortura e violenze. "Deportare queste persone verso la Libia", dice Gaëtan Mootoo di Amnesty International, "significa violare il diritto d´asilo, esponendole al rischio di torture e abusi". Per questo motivo Amnesty chiede che "il governo riammetta queste persone in Niger e lavori con UNHCR per garantirgli protezione". Raggiunta per telefono, la responsabile per il Niger dell´agenzia ONU, l´italiana Alessandra Morelli, parla della necessitá di "tutelare i rifugiati senza lasciare da solo il paese". Il Niger, spiega, "va aiutato a gestire questi rifugiati, con investimenti per lo sviluppo locale". Dopo la deportazione, UNHCR ha avviato un dialogo fra autorità locali e un comitato dei sudanesi, per ridurre le tensioni.

Le reazioni locali. Per Rhissa Feltou, sindaco di Agadez, la presenza dei rifugiati sarebbe però legata proprio alle organizzazioni internazionali. "Non c'erano rifugiati qui", dice dalla sua scrivania, sormontata dalla croce di Agadez, gioiello-simbolo della città. "Sono i campi profughi aperti dalle stesse agenzie umanitarie che hanno attratto i sudanesi, che mai hanno usato questo percorso". Ibrahim Manzo Diallo, giornalista di Aïr Info e storica voce della comunità agadeziana, spiega che "la gente qui è arrabbiata: fanno fatica a sopravvivere e non capiscono cosa vogliano queste persone".

I rifugiati hanno paura. Fra i rifugiati intanto, l'insicurezza cresce. Alcuni sono arrivati qui dopo mesi di detenzione e dopo aver tentato la traversata del Mediterraneo, altri hanno alle spalle 15 anni da sfollati interni nel Darfur o da rifugiati nel vicino Ciad. Un uomo racconta di aver vissuto in Giordania, prima di essere deportato verso il Sudan, per poi scappare di nuovo. Un piccolo gruppo di sud sudanesi di etnia dinka parla a fatica delle torture subite in Libia. Uno di loro non riesce più a piegare le braccia, dopo essere rimasto legato per giorni in un centro di detenzione.

Il mare chiuso. Aicha Ali, una ventenne nominata rappresentante delle donne sudanesi, racconta come quattro delle compagne di viaggio abbiano perso le tracce dei mariti, detenuti o scomparsi in Libia da mesi. E nessuno sa esattamente dove siano i 132 uomini deportati. "Saranno tornati nelle loro basi nel sud libico", spiegano dal ministero dell´interno, alludendo alle milizie del Darfur a cui - secondo lo stesso ministero - apparterrebbero le persone deportate. "Siamo scesi fino a qui perché il mare è chiuso", dice la donna abbracciando l´ultimo dei tre figli, nato in Libia. "Se non troveremo un aiuto, dove faró crescere i miei bambini?", si chiede.