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Migrazioni, oltre l'Africa dei populisti c'è da riscrivere accordi penalizzanti per quel continente

L'obiettivo è superare la dinamica della dipendenza da paesi ricchi a paesi poveri. Africa e Europa sarebbero alleati naturali nella competizione con la Cina

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ROMA - È avvilente che il dibattito sulla migrazione dall'Africa si risolva in un referendum pro o contro gli sbarchi, a uno scontro da stadio tra “prima gli italiani” e “prima gli africani”. Le destre fanno il lavoro ovvio di sempre, seminano paure e fomentano xenofobia a caso, senza distinzioni né approfondimenti sulle dinamiche della migrazione. Ma ciò che stupisce è la mancanza di risposte da sinistra, dai democratici, dai progressisti, chiunque essi siano. Sono pochi a sfuggire agli schemi retorici del buonismo da un lato e della sicurezza temperata dall'altro. Pochi fanno discorsi completi sui migranti, siano rifugiati o lavoratori, come uno, solo uno degli elementi all'interno dei rapporti tra Europa e Africa e nel contesto internazionale.

L'alleanza Africa-Europa. “I populisti sono pericolosi perché riducono le complessità dell'Africa alla sola migrazione forzata, ai richiedenti asilo o – peggio – alla minaccia per l'Europa”, ci dice informalmente un alto funzionario della Commissione Europea che si occupa da decenni del partenariato Africa-Europa. L'Ue investe ogni anno circa 20miliardi di euro in progetti di Cooperazione e sviluppo e una parte - minima - va a rafforzare le misure di controllo dei confini. Forse l'Ue dovrebbe comunicare meglio il lavoro che fa in questo ambito, ma l'obiettivo è chiaro: superare il tradizionale rapporto di donazione e dipendenza da paesi ricchi a paesi poveri per essere sempre più partner in un mercato globale. I due continenti sarebbero alleati naturali nella competizione economica internazionale – rispetto alla Cina, ad esempio - primo per la vicinanza, poi per i legami storici del colonialismo.

Ancora lontano un rapporto alla pari Africa-Europa. Ovviamente nessuno si illude che Europa e Africa possano essere soci alla pari in questo momento. L'eredità coloniale pesa ancora molto sul controllo delle risorse e della finanza, tanto che nella discussione sui termini del partenariato le organizzazioni della società civile chiedono più autonomia e spazio per l'economia interna e per il lavoro. “Gli accordi sono corretti in teoria, ma nella pratica l'Europa deve consentirci di sviluppare la nostra industria manifatturiera, non farci esportare solamente materie prime e semilavorati” dice Alex Nkosi, sindacalista di Lomè, in Togo. Alex è stupito tanto di fronte ai racconti sulla violenza e il razzismo in Europa, quanto dai luoghi comuni su Africa e africani, rappresentati tutti indistintamente come disperati sui barconi o come potenziale minaccia criminale e di sostituzione etnica. I problemi strutturali dell'Africa, che è tutt'altro che povera, restano la mancanza di infrastrutture adeguate, la corruzione endemica, la bassa qualità dei servizi pubblici, come scuola e sanità, formazione e politiche attive del lavoro. Le istituzione economiche e finanziarie internazionali hanno una parte di responsabilità in questi ritardi, responsabilità che risale ai programmi di aggiustamento strutturale degli anni '90.

Chi ostacola lo sviluppo. Oggi quella tendenza si può invertire e una delle occasioni è il rinnovo degli accordi ventennali di Cotonou,  nel 2020, che regola i rapporti tra l’Europa e 79 Paesi di Caraibi, Pacifico e Africa (48 nell’area subsahariana). Obiettivi degli accordi sono eliminare la povertà e integrare l'economia di quei paesi nell'economia mondiale, attraverso commercio, Cooperazione e politica. Il tema è importante per l’Italia, dato che contribuiamo pesantemente al Fondo fiduciario dell’Unione europea di emergenza per l’Africa, legato al trattato. Ebbene, a ostacolare con il veto il rinnovo di Cotonou è l'Ungheria di Viktor Orbán, amico del nostro governo Cinque Stelle-Lega, con il pretesto che l'accordo concede troppo al rispetto dei diritti umani verso i richiedenti asilo.

I nuovi scenari del dibattito sulle migrazioni. Per Orban, insomma, consentire di accogliere rifugiati in Europa – all'interno di un quadro di cooperazione e sviluppo, anche a vantaggio delle imprese europee - aprirebbe sicuramente la strada a criminali e terroristi. Eppure il rinnovo di questo accordo segue semplicemente gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile delle Nazioni unite, l'Agenda 2030, in cui la migrazione è ormai sinonimo di mobilità del lavoro, dunque di crescita e ricchezza. È su questo che dovrebbe concentrarsi il dibattito, su come avviare una gestione regolata e coordinata della mobilità delle persone tra paesi di origine, di transito e di destinazione. È sulla possibilità di riaprire quote legali di permessi di lavoro, considerando le reali esigenze del mercato e delle competenze. In Italia, questo significa riformare innanzitutto la legge Bossi-Fini.

La mobilità del lavoro: 150 milioni di migranti economici. Chi si oppone ai cliché populisti dovrebbe rappresentare meglio la complessità della situazione e indicare le alternative realistiche di gestione della migrazione, che solo in minima parte riguarda gli sbarchi e i richiedenti asilo. I migranti economici sono 150 milioni in tutto il mondo, di cui circa 84 milioni di uomini e 66 milioni di donne. Chi ha diritto a una forma di  protezione umanitaria – profughi, richiedenti asilo e rifugiati - non arriva a 70 milioni globalmente, ma l'80 per cento di questi sta nei Paesi in via di sviluppo. Dunque, al di là del clamore mediatico e della propaganda xenofoba, in Europa ne arriva una parte esigua. Inutile ripetere che i migranti economici rappresentano un fattore di sviluppo tanto per i Paesi di origine, con le rimesse economiche e sociali, quanto per quelli di arrivo, con il lavoro e i contributi allo stato sociale. Il flusso Africa-Europa è solo uno dei movimenti di popolazione e di lavoro. Le stesse dinamiche – a volte con soluzioni assai più razionali e pragmatiche - avvengono tra Sudest asiatico e paesi ricchi del Golfo, tra Centro Asia e Russia, tra Medio Oriente e Pacifico, Tra Asia e America Latina, senza contare il flusso tra Centro America e Stati uniti. In quel caso, però, è difficile dire se Trump stia gestendo la situazione meglio o peggio dei populisti europei.

* Vittorio Longhi, collaboratore del New York Times e fondatore di Afropean Bridges