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Tal Banin: "L'antisemitismo non è uno scherzo, guai ad abbassare la guardia"

Il calciatore: "Quand'ero al Brescia dagli avversari ho avuto insulti e minacce. Ma l'Italia non è razzista, resta casa mia"

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ROMA. In Italia arrivò vent'anni fa: Tal Banin, primo israeliano a giocare in Serie A, oggi vive a Tel Aviv, commenta lo sport in tv e ha un figlio nelle forze speciali antiterrorismo.

Tal, ha saputo delle immagini di Anna Frank usate dai tifosi della Lazio come un insulto?
"Ho letto. Mi ricordo che nel '97, al mio primo anno al Brescia, prima della partita contro la Lazio qualcosa successe: io non ne sapevo nulla, nemmeno capivo l'italiano, ma mi raccontarono che arrivò una telefonata strana, come una minaccia, per la mia religione. Ma non facciamo passare l'idea che tutti i tifosi della Lazio siano così".

Lei è di religione ebraica, ha mai vissuto episodi di intolleranza?
"No, io no, anzi: il mio migliore amico, quando giocavo in Francia, al Cannes, era Kader Ferhaoui, algerino e musulmano: nel 2017, in questo momento storico, nessuno deve permettersi di discriminare nessuno per il colore della pelle o per la religione. Sono cose da persone ignoranti e l'ignoranza oggi non è più tollerabile".

Eppure in qualche stadio capitano ancora episodi come quello dell'Olimpico.
"Nel calcio ci sono state delle storie vergognose, il mio popolo ha sofferto molto per questi gesti. Ma ora gli episodi stanno diventando sporadici. Su Facebook ho tanti tifosi che mi seguono e ho visto anche alcune curve nel mondo che hanno esposto bandiere di Israele come segno di pace. Certo non bisogna mai abbassare la guardia".

In Italia ci fu il caso del suo connazionale Rosenthal, l'Udinese fu costretta a rinunciare al suo acquisto per le intimidazioni antisemite di alcuni tifosi.
"Avevo parlato con Rosenthal, prima di venire. E pure a me qualche tifoso fece dei cori, ma lo scoprivo dai giornali o dai compagni, perché all'inizio non capivo la lingua. Ciò nonostante, Brescia è casa mia: sono stato benissimo in Italia e tifo sempre per la nazionale italiana".

Le istituzioni fanno abbastanza per arginare il fenomeno?
"In Inghilterra lo hanno fatto: avevano un problema negli stadi e lo hanno risolto, fai risse o un ululato razzista e finisci in carcere. Con religione e razza non si scherza, certi atteggiamenti vanno puniti. Ma il problema è culturale: bisognerebbe iniziare a casa, prima ancora che nelle scuole, a insegnare la storia. Siamo stanchi di dover fare attenzione ogni volta che una squadra di Israele va a giocare fuori. E vale lo stesso per quei ragazzi di colore che vengono insultati negli stadi e non solo".
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