Vaticano

Papa Francesco: "Ho pianto per i rohingya. Volevano cacciarli dal palco, ma mi sono arrabbiato"

Papa Francesco durante l'incontro stampa sull'aereo che lo riportava in Italia (afp)
Intervista con il pontefice sul volo di ritorno dalla visita in Asia. "San Suu Kyi? Bisogna valutare sapendo che il Myanmar è in piena transizione". "Dal Bangladesh un grande esempio di accoglienza; un paese piccolo ha ricevuto 700 mila profughi. E ci sono paesi che chiudono le porte!". "Viaggio in Cina? Mi piacerebbe, ma non è in programma". E sul nucleare: "Vedo irrazionalità, c'è il rischio che l'umanità finisca"
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Dice che "con le armi nucleari non è lecito spingersi oltre. Siamo al limite. Il rischio è che l'umanità finisca". Sul volo di ritorno dal viaggio in Myanmar e Bangladesh il Papa risponde ad alcune domande dei giornalisti chiedendo che siano incentrate solo sulla sua permanenza nei due Paesi asiatici. Unica eccezione, una domanda sul tema degli armamenti nucleari. Sui Rohingya racconta come è arrivato a pronunciare il loro nome. "Volevano cacciarli dal palco" alla fine dell'incontro interreligioso di Dhaka "e anche che non parlassero con me", dice. "Non l'ho permesso. Ho pianto per loro cercando di non farlo vedere e, dopo averli ascoltati, ho sentito crescere cose dentro di me e ho pronunciato il loro nome". E spiega che nell'incontro col generale Ming Aung Hlaing di lunedì non ha "negoziato la verità".
 
Durante la Guerra fredda Giovanni Paolo II disse che la deterrenza nucleare era moralmente accettabile. Lei ha detto di recente che anche il possesso di armi nucleari è da condannare. Perché questo cambiamento? Hanno influito le tensioni tra il presidente Trump e Kim Jong-un?
 "Cosa è cambiato? L'irrazionalità. Penso all'enciclica 'Laudato Si' sulla custodia del creato. Dal tempo in cui Giovanni Paolo II nel 1982 ha detto queste cose sono passati tanti anni. Oggi siamo al limite, è la mia opinione convinta, della liceità di avere e usare le armi nucleari. Perché oggi con un arsenale nucleare così sofisticato si rischia la distruzione dell'umanità o almeno di gran parte di essa. È cambiato questo: la crescita dell'armamento nucleare, le armi sono capaci di distruggere le persone senza toccare le strutture. Da Papa mi faccio questa domanda: è lecito mantenere gli arsenali nucleari così come stanno o per salvare il creato e l'umanità non è forse necessario tornare indietro? Pensiamo a Hiroshima e Nagasaki, settant'anni fa. E pensiamo a ciò che succede quando dell'energia atomica non si riesce ad avere tutto il controllo. Pensate all'incidente in Ucraina. Per questo, tornando alle armi che servono per vincere distruggendo dico che siamo al limite della liceità".
 
La crisi del Rohingya ha catturato l'attenzione del viaggio. L'altro ieri lei ha pronunciato il loro nome. Voleva parlarne anche in Myanmar?
 "Non è la prima volta che ne ho parlato. Già in piazza di San Pietro lo feci. Per me la cosa più importante è che il messaggio arrivi. Se nel discorso ufficiale avessi detto quella parola, sarebbe stato come sbattere la porta in faccia ai miei interlocutori. Così a volte fanno certe denunce nei media: dette con aggressività chiudono il dialogo, chiudono la porta, e il messaggio non arriva. Allora ho descritto la situazione, ho parlato dei diritti delle minoranze, per permettermi poi nei colloqui privati di andare oltre. Sono rimasto soddisfatto dei colloqui: è vero, non ho avuto il piacere di sbattere la porta in faccia pubblicamente a nessuno, ma ho avuto la soddisfazione di dialogare, di dire la mia".
 

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Cosa ha sentito quando ha chiesto perdono?
 "Non era programmato. Sapevo che avrei incontrato i Rohingya, non sapevo dove e come. Dopo contatti col governo e con la Caritas, il governo ha permesso ai Rohingya di viaggiare: quello che fa il Bangladesh per loro è grande, è un esempio di accoglienza. Un Paese piccolo, povero, che ha ricevuto 700mila persone... Penso ai Paesi che chiudono le porte! Dobbiamo essere grati per l'esempio. Il momento del dialogo interreligioso ha preparato il cuore di tutti noi. Eravamo religiosamente aperti, io mi sentivo così. È arrivato il momento del saluto. Qualcuno ha detto loro che non potevano dirmi nulla. Volevano alla fine anche cacciarli via dal palco. Io mi sono arrabbiato e ho chiesto rispetto. Così sono rimasti lì. Dopo averli ascoltati uno a uno ho cominciato a sentire crescere cose dentro di me: 'Non posso farli andare senza dire una parola'. E ho chiesto il microfono. Non ricordo cosa ho detto, so che a un certo punto ho chiesto perdono, perdono due volte. Io piangevo, cercavo che non si vedesse. Loro piangevano pure".
 
Il primo giorno in Myanmar ha incontrato a sorpresa il generale Ming Aung Hlaing. Che incontro è stato?
 "Ci sono incontri nei quali vado a trovare la gente e incontri nei quali ricevo gente. Il generale ha chiesto di parlare e l'ho ricevuto. Mai chiudo la porta. È stata una bella conversazione. Non dico il contenuto perché è stata privata. Non ho negoziato la verità. Ma ho fatto in modo che capisse perché una strada come quella dei brutti tempi passati oggi non è perseguibile. È stato un incontro civile".
 
Perché il generale ha chiesto di vederla prima del previsto? Si è sentito che voleva manipolarla?
 "È arrivata la richiesta perché doveva poi partire per la Cina. Se posso spostare un appuntamento lo faccio. A me interessava il dialogo chiesto da loro. Il dialogo è più importante del sospetto che volessero dire: noi qui comandiamo. Io ho usato con lui le parole per arrivare al messaggio e quando ho visto che il messaggio veniva accettato ho osato dire tutto quello che volevo dire. Intelligenti pauca".
 
Le ha incontrato Aung San Suu Kyi e poi in Bangladesh il primo ministro. Cosa porta via da tutti questi incontri?
 "Non sarà facile andare avanti in uno sviluppo costruttivo, non sarà facile per chi volesse tornare indietro. L'Onu ha detto che i Rohingya sono oggi la minoranza etnico-religiosa più perseguitata del mondo, è un punto che pesa per chi vuole tornare indietro. La speranza io non la perdo".
 
Aung San Suu Kyi è stata criticata per il silenzio sui Roihngya. Cosa pensa?
 "Nel Myanmar è difficile valutare una critica senza prima chiedersi: è possibile fare questo? Sarà possibile farlo? Il Paese è in transizione e le possibilità sono da valutare in quest'ottica".
 
Perché non è andato nel campo profughi dei Rohingya?
 "Mi sarebbe piaciuto ma non è stato possibile. Si sono studiate le cose e non è stato possibile per vari fattori, anche il tempo, la distanza".
 

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Gruppi jihadisti volevano farsi tutori dei Rohingya?
 "Ci sono gruppi di terroristi che cercano di approfittare dei Rohingya che è gente di pace. C'è sempre un gruppo fondamentalista, e anche noi cattolici ne abbiamo. I militari giustificano il loro intervento a motivo di questi gruppi. Io non ho scelto di parlare con questa gente, ma con le vittime di questa gente che è il popolo Rohingya che soffre per le discriminazione ed è difeso dall'altra parte dai terroristi. Il governo del Bangladesh fa una campagna molto forte di tolleranza zero al terrorismo anche per evitare altri punti".
 
C'è opposizione fra evangelizzare e dialogo interreligioso? Qual è la priorità, evangelizzare o dialogare per la pace?
 "Prima distinzione. Evangelizzare non è fare proselitismo. La Chiesa cresce non per proselitismo ma per attrazione, cioè per testimonianza, lo ha detto Benedetto XVI. Evangelizzare è testimoniare come vivere il Vangelo e in questa testimonianza ci sono conversioni. Ma noi non siamo entusiasti di fare subito le conversioni. Se vengono, si parla, per cercare che sia la risposta a qualcosa che lo Spirito ha mosso nel cuore davanti alla testimonianza del cristiano. Nel pranzo coi giovani a Cracovia uno mi ha chiesto: cosa devo dire a un compagno di università amico bravo ma che è anche ateo? Cosa devo dirgli per cambiarlo, per convertirlo? La risposta è stata questa: l'ultima cosa che devi fare è dire qualcosa. Tu vivi il tuo Vangelo e se lui ti domanda perché gli puoi spiegare perché lo fai e lascia che lo Spirito Santo lo attiri. Questa è la forza: la mitezza dello Spirito Santo. Non è un convincere mentalmente con spiegazioni apologetiche. Noi siamo testimoni del Vangelo. Il proselitismo non è Vangelo".
 
È in preparazione un viaggio in Cina?
 "Il viaggio in Cina non è in preparazione. Ma mi piacerebbe tanto visitarla. Non è una cosa nascosta. Le trattive con la Cina sono ad alti livelli, culturali, in questi giorni c'è una mostra dei musei in Cina e una dei musei cinesi in Vaticano. Ci sono i rapporti culturali e scientifici. Poi c'è il dialogo politico. Si deve andare avanti passo-passo con delicatezza, lentamente. Le porte del cuore sono aperte. E credo che farà bene a tutti un viaggio in Cina. A me piacerebbe farlo".
 
I preti che ha ordinato avevano paura di diventare sacerdoti in un Paese musulmano?
 "Ho l'abitudine cinque minuti prima dell'ordinazione di parlare con loro in privato. Sono sembrati sereni, tranquilli, coscienti della missione, normali. "Giocate a calcio?", ho chiesto loro. Si, mi hanno detto, e questo è importante. La paura non l'ho percepita".
 
Sappiamo che vuole andare in India. Quando esattamente? Perché in questo viaggio non ha potuto?
 "Il primo piano era di andare in India e Bangladesh. Ma poi le trattative per andare in India si sono ritardate, il tempo premeva e ho scelto questi due Paesi. È stato provvidenziale perché per visitare l'India ci vuole un solo viaggio. Devi andare al Sud, al Centro, all'Est, al Nord... per le diverse culture dell'India. Spero di farlo nel 2018 se vivo, ma l'idea era India e Bangladesh".