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Così i guru della Silicon Valley adesso si pentono dei loro like

Il pubblico armato di smartphone a un concerto rock (Guy Prives/ Getty Images) 
Hanno costruito Facebook, guadagnato milioni con Google, irretito miliardi di persone nei social network. Ora però in molti scoprono che l’economia digitale ci ruba l’attenzione e l’anima. Ecco i loro mea culpa
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SAN FRANCISCO. Tristan Harris ti guarda come se fossi l’incauto paziente che è venuto dal medico per un po’ di tosse e non immagina di avere un carcinoma. L’idea originaria infatti era di parlare delle nostre vite sempre più tempestate da distrazioni tecnologiche, afflizione diffusa al centro dei suoi pensieri sino a pochi mesi fa. Poi, indagando meglio, ha capito che il problema è ben più vasto della somma delle sue parti (le email incessanti, i gruppi di WhatsApp a cui qualcuno ci ha proditoriamente iscritto, le notifiche delle app e via interrompendo). È sociale, ormai politico, e ha a che fare con i modi in cui le piattaforme digitali estraggono valore dai loro utenti. In altre parole riguarda l’economia dell’attenzione, in cui i pubblicitari competono ferocemente anche solo per qualche minuto del nostro spazio mentale, per venderci indifferentemente prodotti o candidati. Per dirottare il nostro flusso di pensieri e portarlo dalla loro parte, che lo vogliamo o no, che ce ne accorgiamo o meno.

Ecco di cosa vuole parlare questo ingegnere trentenne, che dopo aver venduto la sua startup nel 2011 è entrato a Google come designer ethicist, ovvero colui che doveva assicurarsi che i prodotti fossero sviluppati in maniera etica e che a un certo punto ha diffuso internamente, a dieci colleghi che poi sono diventati cinquemila, un paper di 144 pagine dal titolo A Call to Minimize Distraction & Respect Users’ Attention. Alla fine del 2015, visto che niente cambiava, ha lasciato anche Google per diventare, nella felice definizione dell’Atlantic, «la cosa più vicina a una coscienza che abbia la Silicon Valley».

«Sta diventando un problema esistenziale» dice in una sala riunioni tutta vetri nella sede di Common Sense, una ong che si occupa di fare crescere i bambini in un ambiente sano e che lo ospita, «dal momento che Facebook, con due miliardi di iscritti che la frequentano anche oltre cento volte al giorno, ha più seguaci del cristianesimo ed è grande una volta e mezzo l’islam. È, insomma, più influente di qualsiasi religione». Che è una maniera piuttosto efficace di porre la questione. E lo candida a guidare il drappello, ogni giorno sempre più nutrito e autorevole, di quelli che con una semplificazione brutale chiameremo i pentiti del web...

Continua sul Venerdì del 2 febbraio