Mentre il Paese occidentale più potente del mondo dichiara di voler innalzare nuovi muri alle frontiere del suo democratico stato, dall’altra parte del mondo, nel tanto temuto Medio Oriente, il sito web I Run Iran invita invece ad abbattere le barriere e a costruire ponti. E chiama i runners di tutto il mondo per correre la Maratona Internazionale di Teheran, alla quale, per la prima volta nella storia del Paese, sarà ammessa la partecipazione femminile. In Iran, infatti, le donne non possono correre in pubblico neanche per prendere l’autobus, perché il movimento lascerebbe intuire quelle forme anatomiche che invece risultano rigidamente nascoste dall’abbigliamento imposto dalle severe leggi islamiche.

Per la manifestazione citata sono previste tutte le distanze: 10 chilometri, 21 chilometri e 42 chilometri. Io decido d’iscrivermi alla mezza perché una serie di acciacchi non mi ha permesso un allenamento adeguato per poter mirare all’intera maratona. Il sito non indica né il percorso né il programma, ma dà chiare indicazioni sull’abbigliamento femminile durante la gara: maniche lunghe, pantaloni lunghi, capo, collo e soprattutto fianchi coperti nonostante una temperatura prevista tra i 20 e i 30 gradi centigradi.

Una gara in salita

La partenza mi sembra già in salita, ma decido d’ignorare la prima piccola difficoltà e mi dedico alla creazione della maglietta con cui correrò con i miei amici italiani che si sono iscritti sulle varie distanze: il nostro tricolore affiancherà la bandiera iraniana (stessi colori ma in senso orizzontale) e farò stampare in bianco rosso e verde la scritta Itay & Iran, Running Together 4 The Same Colours. Bellissima! Ma mi rendo presto conto che la salita è appena iniziata: 10 giorni prima della gara una mail avvisa che le donne potranno correre solo la distanza di 10K per problemi di organizzazione e, dopo una difficile corrispondenza con il gentile ma quasi irreperibile segretario Mo (Mohammed), capisco che uomini e donne non partiranno insieme. Che delusione!

Al ritiro dei pettorali alla vigilia della gara la salita si fa più ripida: nessuno dà informazioni ufficiali, si capisce solo che la maratona maschile partirà alle 7 del mattino su un percorso (spiegato a voce) tra l’Olympic Stadium fuori Teheran e le vie periferiche della città, con doppio giro per limitare il disagio degli automobilisti che a Teheran sono molto più intolleranti e imbruttiti dei milanesi. Anche la 10K femminile prenderà l’avvio dall’Olympic, ma si snoderà su un circuito in mezzo al niente, intorno a un lago artificiale che ricorda (in brutto) l’Idroscalo di Milano. E partirà alle 4 del pomeriggio per evitare qualsiasi rischio di promiscuità con i maschietti, “protetta” da occhi indiscreti. Pazienza, non ci resta che... correre. Ci presentiamo puntuali alle 14.30 per sbrigare le formalità o, meglio, per scontrarci con la precaria organizzazione iraniana: ci cambiano inspiegabilmente i pettorali e ci consegnano la “divisa”: maglietta lunga fino a metà coscia, pantaloni informi e hijab bianco per nascondere collo e capelli. Ma troviamo il coraggio di chiedere un’eccezione e, dopo un consulto tra le organizzatrici, che non parlano una parola di inglese, otteniamo il diritto di correre con la nostra maglietta personalizzata. E da quel momento inizia la gara più divertente della mia vita.

Le cento ragazze al via, quasi tutte iraniane, vogliono conoscerci, ci fanno domande, ci chiedono di essere fotografate con loro, vogliono a tutti i costi un selfie con le Italian Runners, ci scambiamo numeri di telefono e indirizzi Facebook. Io mi sento quasi come Angelina Jolie sul Red Carpet, manca solo che mi chiedano un autografo.

Una giornalista di una TV locale c’intervista, un gruppetto di signore un po’ anziane si avvicina e ci offre dei biscotti fatti in casa. Pacche sulle spalle, strette di mano, grandi sorrisi e un’allegria e una gentilezza che io non ho mai trovato in nessun’altra parte del mondo.

Al traguardo la stessa accoglienza: applausi e abbracci come se fossero giovani mamme commosse arrivate a festeggiare l’arrivo della prima gara di un figlioletto prodigio. Devo ammettere, peraltro, che la mia prestazione è stata alquanto scarsa: ho patito il caldo, le inaspettate salite, i 1200 metri di altitudine e il dolore a un ginocchio già in stato precario dopo la staffetta di cinque giorni prima alla Maratona di Milano. Ma non me ne importa niente. Non so neanche come mi sono classificata. Non lo saprò mai, in verità, visto che, due giorni dopo la conclusione della gara, l’efficiente macchina organizzativa ha avvisato tutte le gentili runners che a causa del cambio dei pettorali dovuto a un’esigenza dello sponsor, le concorrenti avrebbero dovuto dichiarare il proprio tempo ottenuto, per dare la possibilità di stilare la classifica ufficiale...! A fine gara alcune ragazze espongono un timido cartello di protesta per le promesse non mantenute di un evento che non c’è stato, con la tacita accusa di un’occasione mancata. Meritano di essere ascoltate e meritano di essere supportate. Io quest’anno ci ho provato e posso assicurare che ne è valsa la pena.

Teheran è una città gigantesca, con qualche palazzo di pregio, qualche moschea, dei bei giardini, un grande bazar e alcuni musei più o meno interessanti. Ci vivono nove milioni di abitanti, più altrettanti pendolari che entrano ed escono giornalmente dalla città. È quindi perennemente congestionata dal traffico e afflitta dallo smog. Ma quando si viene graziati, come nel nostro caso, il cielo s’illumina e a nord della città appaiono le montagne innevate dell’imponente catena dell’Elburz. Alcuni degli amici italiani incontrati a Teheran per la maratona erano proprio reduci da un’escursione di scialpinismo che li aveva portati in vetta al Monte Damavand, con i suoi 5671 metri la cima più alta dell’imponente catena e di tutto il Medio Oriente. Hanno avuto un giorno per riprendersi e quattro di loro si sono cimentati nella mezza. Hanno accusato un po’ di fatica alle gambe ma nessun problema di fiato. Ottimo allenamento!

Contrasti

È anche città di contrasti: nord più moderno e ricco, sud più povero e tradizionale. L’amico che, unico del gruppo, ha affrontato i 42 km, è stato cortesemente invitato a rientrare subito in albergo quando la vigilia della maratona è uscito per sgranchirsi le gambe in pantaloncini corti da corsa (ammessi solo per gli uomini ed eccezionalmente solo il giorno della gara). Quanto alle donne, tutte devono apparire in pubblico con il capo coperto. La maggior parte indossa l’hijab, il tradizionale copricapo che ricorda un po’ il velo della monaca di Monza. Tantissime sono avvolte da quel mantello nero che chiamano chador, quasi nessuna indossa il burka. Le più giovani e moderne si limitano a camicie lunghe o cappottini leggeri su pantaloni attillati e sul capo un foulard colorato che talvolta lascia intravedere un ciuffo di capelli spesso troppo biondi, un trucco molto pesante e un naso quasi sempre rifatto (usanza ormai consolidata anche tra i maschi). Si vedono quindi spesso ragazzi fieri del proprio naso incerottato, che significa l’avvicinamento all’occidente e all’età adulta.

L’alcool è vietato, ma alle feste private, soprattutto al nord, ogni famiglia ha il suo pusher. Si dà una mancia un po’ abbondante al portiere che chiude un occhio e a fine festa fa sparire i vuoti. Le ragazze si presentano avvolte da cappotti e chador e in una stanza adibita a camerino si cambiano e calzano tacchi alti e indossano minigonne e vestiti scollati. Noi siamo state a una cena privata “tranquilla”, da un ragazzo che vive a Teheran da qualche mese. C’era una bella comunità cosmopolita dove le mie amiche ed io siamo sicuramente apparse come le più “bacchettone”. Una giovane mamma aveva con sé i figli piccoli, perché è di cattivo gusto pagare qualcuno per curare i tuoi figli. Chi può permetterselo non lavora o si dedica ai figli e ad attività non troppo impegnative. Tutti navigano su internet, usano Facebook e Instagram. Avrebbero delle limitazioni, ma il governo non li punisce e dunque si sentono liberi di condividere pensieri e idoli dei coetanei occidentali. Se ci si lascia Teheran alle spalle la situazione cambia un po’ ma non radicalmente. Ovunque tanti chador e un sacco di gente gentile e simpatica che vuole sapere da dove vieni e ti fa sentire importante perché sei italiano. Pochi parlano inglese, ma fanno di tutto per aiutarti o per trovare qualcuno che capisca di cosa hai bisogno.

Vorrei stare in Iran un mese, ma il tempo a disposizione è lo stretto necessario per capire qualcosa della grande civiltà Persiana: tappa per visitare la tomba di Ciro il Grande e poi di corsa verso la meravigliosa città di Isfahan, la cui Imam Square è una delle tre piazze più grandi del mondo. E poi l’antica Persepoli, testimonianza della grandezza dell’impero di oltre 2500 anni fa, fatta erigere da Dario e dai suoi discendenti prima della distruzione a opera di Alessandro Magno. Da non perdere le tombe rupestri di Naqshe Rostam prima dell’ultima tappa a Shiraz, antica capitale e culla della civiltà Persiana: tappa d’obbligo al bazar, alla moschea, ai vecchi bagni pubblici e infine alla tomba del grande poeta Hafez, qui nato nel 1300 e le cui poesie d’amore sono il libro più venduto in Iran dopo il Corano. Popolo di poeti dunque, quello dell’Iran, gentile e ospitale. Fiero delle proprie radici ma con una storia controversa di rivoluzioni e controrivoluzioni. Proprio a maggio ci sono state le elezioni: le ragazze con cui abbiamo parlato non sembravano ottimiste su un possibile cambiamento, ma intanto conducevano la loro piccola battaglia personale attraverso la corsa. E io credo che ce la faranno. In bocca al lupo ragazze!