Caduta dell'ISIS. Che ne sarà dei figli dei miliziani neri?

Redazione culturaeculture.it
Pubblicato il 26-03-2019

Caduta Baghuz, l'ultima roccaforte dell'ISIS, ora c'è un'altra guerra da vincere: riabilitare i figli dei miliziani

Ha un viso giovane, ma già provato da tutta la morte passata sotto ai suoi occhi neri. Nesrin Abdullah è la portavoce delle unità combattenti curde femminili. È un ufficiale e come tante compagne ha aspramente combattuto, eppure quando incontra, nelle terre appena riconquistate al Daesh-Isis, un inviato del 'Corsera', per prima cosa non parla della vittoria, ma del destino di duemila bambini.

I lettori di 'Avvenire' già sanno che anche questa storia minore e straziante (ne abbiamo cominciato a dare conto nella primavera di un anno fa con il reportage di Federica Zoja: «Spose del Daesh, le nuove perseguitate» , si sta scrivendo sotto i troppo rari titoli concessi in Occidente a una guerra poco vista e ancor meno raccontata.

E ora Nasrin dice di duemila figli delle donne del Daesh, giovani madri che li hanno educati nel mito della guerra santa per il Califfato, e che continueranno a farlo, anche se con Baghuz l’ultima roccaforte degli jihadisti è caduta. Bambini di magari cinque anni, già addestrati a sacrificarsi in attentati suicidi. Bambini, però.

E Nesrin Abdullah si domanda che cosa l’esercito curdo potrà fare ora di loro, e come sarà possibile separare da madri che educano nell’odio i figli piccolissimi. Duemila figli di ceceni, turchi, tunisini, francesi, e anche italiani, raccolti con le mamme tra le rovine di Baghuz.

Che ne faremo, si chiede la donna soldato Abdullah, aggiungendo con angoscia: «Per noi, è come vedere un serpente crescere nel ventre di una madre». Immagine tremenda, ma comprensibile nella ferocia della guerra siriana. La bandiera del Daesh è stata ammainata, però cellule scampate, come in una metastasi, potrebbero riorganizzarsi.

E quei duemila bambini cresceranno rapidamente. Non si capisce, dalle parole della militare curda, se prevalga verso i figli del nemico il timore, o un’apprensione anche materna: che sarà di loro, adesso? Di loro, e delle giovanissime madri, spesso adolescenti, indottrinate alla guerra santa dai loro uomini. Che forse ora sono morti o, comunque, si sono dileguati. Ma la guerra continua: i figli sono educati al sacrificio della vita. (Chissà, nel plagio, quanta violenza devono usare su se stesse queste madri, per insinuare l’idea della morte in un figlio che hanno messo al mondo e allattato, in un figlio che amano). In un regime dittatoriale, la risposta alla domanda di Nesrin Abdullah sarebbe semplice.

In un regime dittatoriale i figli del nemico, sottratti alle madri, verrebbero rinchiusi in qualche istituto di rieducazione intensiva, dove accumulerebbero odio su odio. Ma la giovane curda sembra porsi in un’altra prospettiva, se si chiede come separare i figli dalle madri, e che fare di queste donne giovanissime. Che l’Europa ci aiuti, dice al giornalista italiano. Come immaginando che l’Occidente offra asilo e rieducazione a bambini e madri, che accolga in sé il nido del nemico e riporti queste giovani vite nell’orbita della pace.

Che grande prova, pensi, sarebbe per un’Europa stanca, e avvilita in orizzonti ristretti. Ma, temi, ci vorrebbe un altro respiro, un altro coraggio, un’altra certezza di ciò che siamo e vogliamo essere. Che fine faranno dunque i bambini del Daesh e le loro madri ragazzine? Nelle rovine ancora fumanti del Califfato nero dubitiamo che siano considerati la prima emergenza dalle potenze interessate al destino della Siria. Forse solo perché sotto la tuta mimetica di quel-l’ufficiale c’è una donna, questo dramma almeno per un momento torna a emergere chiaro. Perché gli uomini, nella storia, si sono sempre preoccupati di vincere le guerre, di annientare i nemici, di issare nuove bandiere sulle terre conquistate.

Ma ci sono, dietro a una guerra intestina e feroce come quella siriana, altre guerre, che non si vincono con le armi, e sono le più ardue. Sono la ricomposizione delle lacerazioni nella popolazione, e dell’ansia di vendetta; la cura degli orfani, l’educazione della nuova generazione, l’unità da ritrovare. Una vittoria militare si raggiunge bombardando, piegando, annientando. Molto maggiore è la umana fatica per ricominciare, per tessere la pace.

Uccidere è un attimo, tornare a far vivere richiede anni di pazienza e fiducia nel prossimo. Per questo i duemila piccoli figli del Daesh sono una domanda grave non solo per i curdi e la regione siriana, ma anche per l’Occidente, del Califfato nero il grande nemico. Come recuperarli dall’odio in cui sono stati allattati? E che vittoria sarebbe, già impegnarsi in una tale impresa; vittoria senza schianti di bombe, né carri armati che sfilano trionfanti.

Un’altra, sommessa vittoria. Non è cosa per eserciti. Per padri, invece, e madri, per uomini e donne miti e tenaci, che non issano bandiere su campi di battaglia annichiliti nel fuoco e nella polvere.


Marina Corradi - Avvenire

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