Reliquie rubate e fedeli in allarme: il culto dei “sacri resti” tra storia e superstizione

30 Ott 2017 14:53 - di Lisa Turri

E’ di qualche giorno fa la notizia del furto sacrilego al Santuario Montecastello a Tignale, sulla sponda bresciana del Lago di Garda, dove sono state portate via le reliquie con il sangue di San Giovanni Paolo II e i frammenti ossei del beato Jerzy Popieluszko. Qualche mese fa fece scalpore un’altra notizia simile: il furto di un frammento di cervello di San Giovanni Bosco.

E non c’è chi non si sia chiesto come sia possibile, in una società pienamente laicizzata, tanta attenzione, nel bene e nel male, per le reliquie, al centro delle cronache anche in tempi recenti: la reliquia di Sant’Antonio trafugata nel 1991, il sangue di Wojtyla rubato nel 2014.

Il culto delle reliquie è del resto antichissimo e si sviluppa fin dalle origini: la venerazione delle reliquie dei santi è attestata fin dal II secolo. Da allora questo aspetto del cristianesimo, che gli storici definiscono religiosità popolare, ha conosciuto una diffusione instancabile. E va detto che non bisognò attendere le Riforme o l’illuminismo per criticare il culto delle reliquie, osteggiato da subito da chi, come Vigilanzio, prete delle Gallie, condannava la venerazione di oggetti inanimati, in particolare quella dei corpi di Pietro e Paolo grazie ai quali Roma fu riconosciuta centro della cristianità.

Ecco allora che Sant’Agostino giustifica l’omaggio religioso alle reliquie per «associarsi ai meriti dei martiri sì da assicurarsi la loro intercessione attraverso la preghiera». Le Chiese cristiane d’Oriente andarono oltre, attribuendo alle reliquie poteri miracolosi. Fu Tommaso D’Aquino, nel XIII secolo, a dare sistematicità al dibattito, enucleando tre motivi per i quali le reliquie dovevano essere oggetto di culto: erano il ricordo fisico dei santi; hanno di per sé valore in quanto connesse con l’anima dei santi; operando miracoli presso le tombe dei santi stessi Dio dimostra di volerne la venerazione.

All’inizio non si affermò il culto delle reliquie vere e proprie ma quello dei brandea, cioè oggetti che erano stati in contatto con il santo o con la sua tomba. Gregorio Magno portava al collo, per esempio, un piccolo crocifisso contenente limatura delle catene di San Pietro. Presto i brandea non poterono più competere con i corpi dei santi: risale al 415 la scoperta del corpo di Santo Stefano, primo martire cristiano.

Durante tutto il Medioevo mentre la Chiesa ufficiale predicava contro le “vacue rivelazioni” sulle reliquie, il popolo si appassionava sempre più al culto dei santi e dei loro resti.

Con la diffusione, a partire dal IV secolo, della credenza secondo la quale le reliquie fossero necessarie per la consacrazione di una chiesa, si diede vita a un commercio non dissimile da quello dei mercanti d’arte. Un mercanteggiare sulla fede favorito anche dal fatto che i sovrani non disdegnavano certo le collezioni di preziose reliquie, anzi le ricercavano con tutti i mezzi possibili soprattutto dopo la caduta di Costantinopoli (1204) e la dispersione della collezione di reliquie degli imperatori bizantini. Ciò spiega perché Luigi IX di Francia volle arricchire la Sainte Chapelle con una serie prodigiosa di reliquie: la corona di spine, una parte della vera Croce, un pezzo della Santa Lancia, frammenti del mantello purpureo di Cristo.

Non mancavano gli scettici, che spesso denunciavano anche le frodi sottese al commercio delle reliquie. Gilberto di Nogent per esempio assistette ai discorsi truffaldini di un piazzista di reliquie a Laon che pretendeva di vendere alla folla una scatoletta contenente un pezzo del pane masticato da Gesù durante l’ultima cena. Proprio a Gilberto, abate di Nogent, si deve un “Trattato sulle Reliquie” in cui critica aspramente quelle venerate ai suoi tempi con toni severi e rigorosi: com’era possibile – scriveva – conservare un dente da latte di Gesù nell’abbazia di San Medardo a Soissons se Gesù era risorto?

Come fare allora a provare l’autenticità di una reliquia? Secondo le credenze dell’epoca bastava ricorrere a una pratica stabilita con l’ufficialità del canone dal concilio di Saragozza: gettarla nel fuoco e vedere se rimaneva intatta. I monaci di Montecassino per esempio, che possedevano un frammento del panno con cui Gesù aveva lavato i piedi dei discepoli, posero la reliquia in un crogiolo infuocato dove «diventò del colore del fuoco, ma non appena ritirata dai carboni riprese il suo aspetto originario».

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