Trattativa mafia-Stato: così il pm Di Matteo cerca di salvare Ciancimino

11 Gen 2018 17:12 - di Paolo Lami

Al processo per la cosiddetta trattativa Stato-mafia va in scena la requisitoria del pm di Palermo, Nino Di Matteo. Che promuove la tesi di uno Stato che cerca Riina per proporgli il patto. E rispolvera, naturalmente, i nomi, sempre utili, di Silvio Berlusconi e di Marcello Dell’Utri. Ora il problema è far quadrare un cerchio. E la cosa non è facile. Alla base del teorema della Procura di Palermo ci sono, infatti, principalmente le dichiarazioni del pluripregiudicato Massimo Cianciminio, figlio dell’ex-sindaco mafioso diccì di Palermo, Vito, e considerato, oramai, una sorta di depistatore professionista.
Massimo Ciancimino è il Jolly del processo.
La sua figura controversa e discussa era, inizialmente, considerata centrale e strategica nel processo della cosiddetta trattativa Stato-mafia e il nome di Massimo Ciancimino veniva portato in aula in palmo di mano dai pm che hanno utilizzato le sue clamorose dichiarazioni accusatorie per costruire il castello accusatorio. Fino a quando i nodi non sono iniziati a venire al pettine. Condannato per calunnia nei confronti di un agente dei Servizi segreti italiani, condannato per detenzione di esplosivo, condannato anche per riciclaggio e accusato di estorsione e intestazione fittizia di beni, e di aver calunniato l’ex-capo della polizia Gianni De GennaroMassimo Ciancimino e il suo mito hanno iniziato a vacillare.
Poco a poco è emersa la figura di uno spregiudicato personaggio che, mentre continuava a fare i suoi loschi traffici utilizzando come uno schermo la figura di volenteroso ma falso collaboratore di giustizia, lanciava palate di fango a destra e a manca con dichiarazioni rivelatesi, poi, false.

Il problema dei magistrati palermitani – e di Di Matteo, in particolare – ora è proprio questo: come conciliare i racconti, surreali e rivelatisi spesso falsi, fatti da Massimo Ciancimino, con la sua incrinata credibilità di sedicente collaboratore di giustizia? Come salvare il processo e, contemporaneamente, buttare a mare il depistatore Ciancimino che è, contemporaneamente, testimone e imputato?
La questione non è di semplice soluzione. L’ha affrontata così ieri in udienza Di Matteo: «per un nucleo forte ed essenziale di sue dichiarazioni, Massimo Ciancimino è credibile e attendibile e ha avuto il grosso merito di avere risvegliato le stanche reminiscenze di chi, fino a quel momento, non aveva voluto parlare di circostanze che non poteva avere giudicato irrilevanti». Una capriola dialettica per dire che bisogna salvare capra e cavoli. Come dire che Ciancimino è credibile a intermittenza. Ma va bene così.

«Massimo Ciancimino ha confessato di essere l’autore della calunnia (sull’ex-capo della polizia Gianni De Gennaro ndr) ma non ne indica il mandante», dice Di Matteo cercando di convincere i giudici del processo sulla presunta trattativa Stato-mafia che si possono prendere pezzi delle dichiarazioni di un depistatore e buttare il resto. E lasciando immaginare il solito Grande Vecchio. O Uomo Nero, come si diceva un tempo in cui gli eskimi giravano in redazione.
«Non è plausibile – concede il pm Di Matteo – che in quel momento Ciancimino non abbia avuto consapevolezza della precisa identità di chi gli ha fornito quel documento manomesso. Per questa imputazione Ciancimino non merita le attenuanti generiche».
Di Matteo si riferisce a un documento, consegnato da Ciancimino, teste chiave ma anche imputato nel processo, agli inquirenti. In una circostanza ha mentito affermando che il padre, Vito Ciancimino, avrebbe sottolineato davanti a lui il nome di Gianni De Gennaro, ex capo della polizia, indicando presunte relazioni con Cosa nostra.
Successivamente, però, Massimo Ciancimino ha ammesso di avere mentito. Da qui l’accusa di calunnia.
«Ciancimino ci disse che “questa cerchiatura l’ha scritta davanti a me mio padre”, poi qualche mese dopo ci portò altri documenti, tra cui un’annotazione del padre sul magistrato Di Gennaro, risultati della polizia scientifica, e in 2 giorni la Procura ha arrestato il suo teste principale. La calunnia c’è tutta», dice Di Matteo. E parla delle «piena confessione che Ciancimino ha reso in questo dibattimento».
«Il primo aprile 2016 – ripercorre Di Matteo la vicenda – Ciancimino iniziò a cincischiare, a negare, a dire non ricordo, quanto invece nella udienza del 7 aprile partendo dalle clamorose dichiarazioni si tornò sull’argomento».
Ora si tratta di capire chi scrisse il famoso “papello“, cioè le presunte richieste fatte dalla mafia allo Stato nell’ambito della trattativa, “papello” consegnato da Massimo Ciancimino alla Procura.
Di Matteo, sapendo che la faccenda non è proprio una questione da poco, anche in considerazione che il documento viene da un falsificatore seriale, la prende parecchio alla larga: «le indagini non hanno consentito di capire chi abbia scritto il papello, ma Ciancimino non ha mai detto che fosse stato scritto materialmente da Riina, semplicemente che ne fosse lui l’ispiratore».
La questione, Di Matteo la sposta su eventuali manomissioni del papello. Per la polizia scientifica «in questo documento non c’è traccia di manomissione. E’ una fotocopia che con altissima probabilità è stata fatta prima del 1995-1996, in considerazione del toner usato poi non più usato in commercio, quindi 14 anni prima che Ciancimino la producesse a noi», conclude il pm.
Riassumendo: il presunto “papello” non è falsificato. Ma non si sa chi lo abbia scritto. Potrebbe averlo scritto chiunque. Anche lo stesso Massimo Ciancimino.
Un po’ poco per costruirci sopra qualunque processo.
Ai giudici che dovranno decidere sulla bontà del teorema accusatorio sulla presunta trattativa Stato-mafia, Di Matteo consegna questa fotografia del calunniatore e depistatore Massimo Ciancimino: «è un disordinato che, dopo la morte del padre, avvenuta nel novembre 2002, si è trovato in possesso di una documentazione fluviale, già prima conservata disordinatamente, verso la quale, a sua volta, e almeno fino all’inizio dei suoi interrogatori non ha mostrato una grande attenzione. Questo è il quadro che ci sembra giusto prospettarvi a proposito dei documenti. E’ vero che ha detto il falso, dicendo che aveva visto scrivere il padre il nome di De Gennaro che gli è costata una incriminazione, e ha prodotto diverse versioni dei documenti. Ma non c’è mai la prova e soprattutto non c’è un indizio per potere affermare che abbia mai personalmente falsificato uno solo dei documenti che ha consegnato».
Quanto al contenuto, Di Matteo osserva che «sul documento non c’è scritto “annullamento 41 bis” ma “annullamento decreto legge 41 bis“» il che fa supporre a Di Matteo «che si fa riferimento a un periodo in cui il decreto legge approvato l’8 giugno 1992 non era stato ancora convertito in legge, cosa che avverrà solo l’8 agosto 1992».

Poi c’è il capitolo, ovviamente, su Silvio Berlusconi. Un nome, una garanzia per qualsiasi inchiesta che si rispetti.
«Erano diversi i canali di comunicazione tra Riina-Dell’Utri-Berlusconi. E’ lo stesso Riina che lo racconta mentre è intercettato in carcere senza sapere di essere ascoltato», assicura il pm Nino Di Matteo, proseguendo la sua requisitoria. E legge alcune frasi che sarebbero state pronunciate in carcere da Riina rivolto al codetenuto Alberto Lorusso: «Ma noi altri abbiamo bisogno di Giovanni Brusca per cercare Dell’Utri? Questo Dell’Utri è una persona seria…Berlusconi in qualche modo mi cercava… si era messo a cercarmi… mi ha mandato a questo… Gli abbiamo fatto cadere le antenne – diceva Riina in un’altra intercettazione del 2013, ricorda Di Matteo – e non lo abbiamo fatto più trasmettere». Dopodiché, però, riscontri alle presunte vanterie di Riina non ne sono stati trovati.

 

 

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