Vescovi USA: tra i migranti al confine con il Messico

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delegazione vescovi usa

Alcuni vescovi degli USA in visita a un centro di accoglienza per migranti a Brownsville, Texas

«Quando ti siedi allo stesso tavolo con famiglie di immigrati e vedi che il loro più profondo desiderio non è sfruttare il nostro Paese, ma salvare i loro figli, tutte le etichette politiche cadono». Le parole del vescovo Joseph Bambera di Scranton, descrivono con efficacia quanto vissuto dalla delegazione dei vescovi americani, guidati dal cardinale Daniel DiNardo, ai confini tra Messico e Stati Uniti, nella valle di San Juan in Texas.

Domenica e lunedì, i sei vescovi hanno ascoltato testimonianze e fatto domande, hanno parlato con gli agenti di frontiera, si sono commossi di fronte all’instancabile lavoro di suor Norma Pimentel, coordinatrice della Caritas locale, si sono seduti a tante mense per toccare di persona i drammi e le speranze dei migranti. E non hanno voluto telecamere o fotografi. Questi incontri restano un colloquio personale. Alla messa della domenica celebrata nella basilica di San Juan erano presenti in oltre 1.800: una celebrazione ricca di simboli perché dedicata ai bambini separati dalle famiglie e perché questo luogo è il secondo santuario degli USA, meta di pellegrinaggio di milioni di persone, in tanti immigrati dal Centro e Sud America. Dietro l’altare, infatti, attorno alla statua di Nostra Signora di San Juan del Valle sono scolpite statue di lavoratori immigrati e delle loro famiglie.

«Una visita pastorale e di preghiera», l’ha definita a più riprese il presidente della Conferenza episcopale Daniel DiNardo, durante la conferenza stampa a conclusione del viaggio, quasi a voler prendere le distanze da chi ha voluto leggervi una contestazione alle scelte dell’amministrazione Trump. Non si può però negare che questa «visita» è un chiaro segnale ai cattolici, che sulle politiche migratorie si sono trovati divisi poiché molti conservatori, che hanno sostenuto il presidente per le scelte a favore della vita, si sono trovati spiazzati dalla decisione di separare le famiglie al confine.

DiNardo risponde con fermezza a chi gli chiede come i conservatori possano conciliare la loro fede con la «tolleranza zero» sponsorizzata dall’attuale amministrazione: «La nostra fede non è un sistema di concetti, ma è una persona, Gesù. La Chiesa ci insegna come essere prossimi alle persone e io da ieri sono qui ad incontrare famiglie, persone». Il cardinale racconta di aver parlato con un uomo dell’Honduras al centro di accoglienza di McAllen, uno dei ricoveri di suor Norma che dal 2014 ha offerto pasti, riparo, vestiti puliti e cure mediche e mentali a più di 100mila migranti: «Aveva ricevuto minacce di morte ed è arrivato qui con il figlio per proteggerlo. Ha oltrepassato il confine in maniera illegale e questo è contro la legge, ma quando gli parlavo, non stavo guardando una norma astratta ma una persona provata e scossa». È questa prospettiva umana a muovere l’agire della Conferenza episcopale che invita ancora una volta i cattolici a usare «la potente e miracolosa arma della preghiera e a promuovere intensamente, ma non in modo sgradevole, la petizione di riforma delle migrazioni inviata al Congresso».

L’arcivescovo di Los Angeles Gomez, ha sottolineato l’urgenza di riunire le famiglie: «Abbiamo parlato con tanti bambini, li abbiamo incoraggiati ad aiutarsi ma serve riunirli alla loro famiglia, un lavoro che è già cominciato e che la Chiesa intende sostenere in tutti i modi», al di là delle collocazioni politiche. Pur esprimendo apprezzamento per l’ordine esecutivo di Trump che impedisce future separazioni, resta l’interrogativo su come gestire la situazione delle famiglie riunite che si troveranno ad attendere in carcere una sentenza giudiziaria. L’idea, infatti, è quella di utilizzare le basi militari come luoghi temporanei di detenzione.

DiNardo offre l’aiuto delle associazioni caritative cattoliche per trovare soluzioni alternative alla carcerazione, che resta comunque «un’esperienza traumatica e costosa. Non voglio dare consigli al Congresso e al presidente, ma voglio offrirgli collaborazione nell’individuare risposte che siano economicamente convenienti e non accentuino le sofferenze. La nostra è una nazione compassionevole e noi possiamo davvero fare molto meglio».

I giornalisti chiedono se «essere compassionevoli comporti un’apertura illimitata delle frontiere o se vada stabilito un numero di ingressi». DiNardo invita a non contrapporre «morale e legge»: «Non possiamo limitarci a parlare delle migrazioni in termini di numeri. Vanno prese decisioni, va istituito un sistema di garanzia, ma occorre che allo stesso tavolo si seggano tutti gli attori coinvolti nella sfida migratoria, che è una sfida non solo per noi, ma per il mondo. Se si lavora insieme si troveranno soluzioni che proteggeranno i confini e si prenderanno cura delle persone. Il nostro sistema migratorio si è infranto e va riformato». E la riforma non può essere un muro, ma deve includere anche «quelle persone che da tempo sono negli Usa e contribuiscono alla produttività e alla ricchezza del Paese», secondo Gomez.

Resta aperta anche la grande questione del dialogo tra la Chiesa statunitense e le Chiese del Messico e del Centro America sulle partenze e sugli arrivi degli immigrati. «La comunicazione tra noi è aperta, costante e forte», spiega mons. Daniel Flores, vescovo della diocesi di Brownsville, dove si trovano i maggiori centri di accoglienza e detenzione di confine. «I vescovi e i sacerdoti dei Paesi di partenza avvertono i loro fedeli dei rischi, delle speculazioni, delle norme alle frontiere – continua Flores – ma non basta. Abbiamo incontrato una madre salvadoregna che ci ha chiaramente detto che il figlio rischiava di essere ucciso dalle bande. “Cosa pensi che avrei dovuto fare? Aspettare solo la sua morte?”. Dobbiamo guardare all’instabilità politica, sociale ed economica di questi Paesi con realismo e allora capiremmo perché le persone sono costrette a fuggire. Non sono felici di farlo e non lo fanno con leggerezza. La situazione è estremamente complicata non solo per i nostri confini ma anche per il Messico, che a sua volta è Paese di immigrazione. I vescovi si adoperano a creare quartieri sicuri, comunità forti ma di fronte alle gang che uccidono intere famiglie che tipo di argomenti possiamo usare?».

Ecco perché la parola globale è l’unica che può aprire un percorso di soluzione alla crisi migratoria: la risposta va trovata insieme, ribadiscono i vescovi. Insieme anche all’agenzia per le migrazioni, agli agenti di frontiera che i vescovi hanno ripetutamente ringraziato per «l’umanità dimostrata verso i minori. Tanti di loro sono genitori e sono consapevoli della tragedia», come della speranza che alimenta chi tutto rischia, per amore dei figli.

Maddalena Maltese è corrispondente da New York per l’Agenzia SIR. Il suo articolo è stato pubblicato sul sito web della stessa agenzia lo scorso 3 luglio 2018.

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