Sudamerica, il continente delle utopie


Premessa concettuale. Le utopie sono idee bellissime, esaltanti, e, come tali, utili a scaldare l’anima, e perciò necessarie. Ne scrissero Platone (La Repubblica), s. Agostino (La città di Dio), Gioacchino da Fiore in vari testi, s. Tommaso Moro (Utopia), Tommaso Campanella (La città del sole): scritti di altissima tensione morale, e sostenuti da afflato poetico.

Fin qui, tutto nobile e caro; ma l’utopia, a differenza di quanto comunemente si crede, non vuole restare un dolce sogno, anzi desidera attuarsi, e nemmeno da qui a secoli, ma subito. Platone provò a realizzare la sua visione; scelse il posto più sbagliato del mondo, la ricchissima e corrottissima Siracusa, e si convinse che Dione fosse un filosofo invece di quello che era, un normale politico e militare: e finì, Platone, venduto come schiavo; mentre Siracusa continuò per secoli, come da secoli, a saltellare fra tirannie feroci e democrazie scombinatissime, finché i Romani non ne fecero una tranquilla e prospera città dell’Impero.

Campanella voleva realizzare al volo il suo progetto, e pensò di rivolgersi a una banda di tagliagole, i quali, per far dispetto agli Spagnoli, si erano alleati con i Turchi: mille volte peggio del proverbiale marito… Gli andò bene che finsero di prenderlo per pazzo.
Insomma, le utopie, pur necessarie, è bene che rimangano dove sono: sui libri.
Qual è l’utopia più nobile di tutte? Il comunismo marxiano nella sua fase finale, ispirata a Rousseau: tutti liberi, tutti felici, “a ognuno secondo le sue necessità”… Beh, provate a riproporlo in Russia, e Putin chiama subito l’atamano dei Cosacchi, persona, chiunque oggi esso sia, notoriamente molto ruvida nei confronti dei nemici della Santa Russia!

Il paese delle utopie è l’America Latina: e del resto, Moro e Campanella posero i loro sogni da quelle parti recentemente scoperte.
Prima del 1492, le Americhe erano un immenso territorio poco popolato, tranne la zona di Messico e le Ande, dove dominavano imperi per nulla utopistici, anzi terribilmente con i piedi per terra. Eppure gli stessi Aztechi vivevano tra realismo politico e terrore che gli dei cambiassero idea e spegnessero il sole, donde orrendi sacrifici umani quotidiani in quantitativi megaindustriali.

Il vastissimo territorio dall’attuale California alla Patagonia venne conquistato e popolato da Spagnoli, popolo notoriamente molto dotato di fantasia; e che, tra una guerra e l’altra, in realtà molto poche, si fusero con gli indigeni. È un fenomeno curiosissimo, come Spagnoli e Quechua (Incas) si siano incontrati, riconosciuti, sposati; e i nobili incas diventarono hidalgos alla corte di Carlo V. Molto di meno ciò avvenne in Messico.
L’America Meridionale spagnola fu un coacervo di sogni (l’Eldorado) e di pesanti problemi, dovuti sia alle difficoltà di clima e orografia, sia a un pigro governo dei viceré castigliani. Per inciso, uno di questi fu Francisco Borja y Aragon, principe di Squillace, che lasciò tracce nella toponomastica del Perù.

Verso la fine del XVIII secolo, gli iberici nativi, creollos (creoli), cominciarono a progettare l’indipendenza dalla Spagna, sul modello degli USA. Simon Bolivar avrebbe sperato nell’unione di tutta l’America di lingua spagnola; le cose andarono molto diversamente, e, tra guerre civili e conflitti intestine tra i nuovi Stati, si giunse all’attuale assetto degli Stati di lingua spagnola e del Brasile di lingua strutturalmente portoghese.

Ma come governare queste nuove realtà, qui l’America Latina mostrò e mostra la sua più sbrigliata fantasia. Il Brasile tentò la via della monarchia liberale (l’imperatore Pedro II sposò Tersa Cristina di Borbone Due Sicilie, detta la Madre dei Brasiliani); la storia degli altri Stati è sempre stata travagliata, tra golpi, pronunciamenti, governi militari, rivoluzioni e repressioni… Ed è sempre stata presente, più o meno invadente e più o meno diretta, la potenza degli USA.
In tutto questo, penetrarono molte forme di utopie che divennero tipicamente sudamericane, varie e tuttavia intrecciate tra loro:

– Socialismo illuminista e romantico premarxiano: quello che Marx chiamava proprio “socialismo utopistico”;
– Stiracchiature dello stesso marxismo scientifico per adattarlo a una realtà diversissima da quella tedesca e inglese studiata da Marx;
– Lotta armata all’avventura, generalmente mal guidata e finita nel sangue inutile, tipo Che Guevara;
– Teologia della liberazione, generoso conato di dare una veste cattolica alla questione sociale, ma con robuste dosi di superficiale e inavvertito sincretismo religioso e ateo; e alati, astratti discorsi a colpi di sillogismi debolissimi, sorretti da richiami biblici ed evangelici non solo fantasticati e approssimativi, ma privi di ogni conoscenza del loro contesto storico, al termine dei quali Gesù diventa un sovversivo, un migrante, un sindacalista… Per il suo fascino verbale, la teologia della liberazione ebbe, e ancora ha, un certo successo acustico anche in Europa. Acustico, ovvio.

E da queste premesse che arriviamo al Venezuela, una terra che galleggia sul petrolio e muore di fame: segno evidentissimo di malgoverno, di errori secolari, e di folli utopie di felicità a buon mercato. Ora è ben difficile capire che sta succedendo, e ancora più difficile collocarsi nettamente dall’una o dall’altra parte. Vedremo.
Due sole eccezioni, nella storia della politica sudamericana, meritano attenzione:

– L’esperimento di lavoro e produzione e giusta distribuzione provato e attuato dai Gesuiti del XVIII secolo con le Reduciones (troppo lungo da spiegare: rivedetevi il magnifico film Mission);
– Il peronismo argentino, ideologia nazionalpopolare (e mi fermo qui per evitare commenti scemi), che mirava all’indipendenza politica ed economica della Nazione, e a un rapporto diretto tra governo e popolo. Come accade spesso a simili movimenti, Peron ed Evita non ebbero molto validi successori.

Perché ritengo questi due dei progetti e non delle utopie? Perché entrambi ponevano al centro non la felicità ma il lavoro, lavoro, non “posto”. Un’attività umana, il lavoro, che le utopie raramente prendono in considerazione. L’utopia è proprio quanto uno vorrebbe campare senza il lavoro, se no si chiamano realismo politico ed economico.

Ulderico Nisticò


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