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11/11/2017 08:00:00

Mafia Marsala. Appello “The Witness”, concluse arringhe difesa

Concluse le arringhe difensive nel processo d’appello a tre dei quattro arrestati nell’operazione antimafia dei carabinieri “The Witness”, del 9 marzo 2015. Alla sbarra sono Antonino Bonafede, 82 anni, pastore, padre dell’ex reggente della “famiglia” di Marsala Natale Bonafede in carcere con “fine pena mai”, Vincenzo Giappone, di 55, anch’egli pastore, e Martino Pipitone, 67 anni, ex impiegato di banca in pensione.

Sia Antonino Bonafede che Martino Pipitone, in passato, hanno già scontato una condanna a 6 anni per mafia. Bonafede, inoltre, qualche anno dopo essere tornato in libertà, secondo i magistrati della Dda avrebbe “ereditato” il bastone del comando in seno alla famiglia mafiosa lilybetana dal figlio Natale, in carcere dal gennaio 2003. Pur condannandolo per associazione mafiosa, però, il Tribunale di Marsala, l’8 giugno 2016, ne escluse il ruolo di vertice in seno alla locale cosca. Adesso, davanti ai giudici della quarta sezione della Corte d’appello di Palermo, il difensore dell’anziano presunto boss, l’avvocato Paolo Paladino, ha affermato: “I fatti ricostruiti dalle indagini non sono riconducibili ad un sistema organizzato, tantomeno di tipo mafioso. Nessuna delle numerosissime conversazioni intercettate evoca, neppure lontanamente, l’appartenenza degli imputati alla mafia”. Tra i difensori, anche il riconfermato deputato regionale Stefano Pellegrino, che insieme a Vito Cimiotta difende Martino Pipitone. Nel processo di primo grado, Stefano Pellegrino affermò: “Martino Pipitone la condanna l’ha già subìta dalla vita. Nel 2012, infatti, ha avuto una emorragia cerebrale con conseguente paresi agli arti. Non è stato più un uomo dinamico in grado di potere svolgere un ruolo in seno a Cosa Nostra. E poi, già nel gennaio 2010, il gip archiviò, su richiesta della stesso pm, un procedimento per associazione mafiosa”. Lo scorso 13 ottobre, il procuratore generale della Corte d’appello di Palermo ha invocato la conferma delle condanne inflitte dal Tribunale di Marsala, che dall’accusa di associazione mafiosa ha assolto solo il Pipitone, seppur condannandolo a due anni di reclusione per intestazione fittizia di una società ad altra persona “per evitare eventuale confisca da parte dello Stato”. La pena più severa, 16 anni di carcere, il Tribunale lilybetano l’ha inflitta, invece, ad Antonino Bonafede. La pena per l’anziano pastore è “complessiva”. Include, infatti, anche i 6 anni già scontati per una precedente condanna per mafia. Di fatto, quindi, gli sono stati inflitti altri 10 anni (per il periodo dal 2006 in poi). Il pm Carlo Marzella ne aveva chiesti 12. “La sentenza – commentò l’avvocato difensore Paolo Paladino – accoglie la richiesta della difesa finalizzata all’esclusione del ruolo di capo”. A Bonafede senior, intanto, nel gennaio 2015, sono stati confiscati beni per oltre 4 milioni di euro. A 12 anni di carcere, sempre per mafia, il Tribunale marsalese condannò Vincenzo Giappone. Per lui, in primo grado, una pena superiore a quella invocata dal pubblico ministero (10 anni). A difendere Giappone sono gli avvocati Stefano Venuti e Federico Sala. Per Bonafede e Giappone, il Tribunale marsalese decretò anche tre anni di libertà vigilata dopo l’uscita dal carcere. I due imputati sono stati, inoltre, condannati a risarcire con 5 mila euro l’associazione antiracket e antiusura “Paolo Borsellino”, costituitasi parte civile con l’avvocato Peppe Gandolfo. Per l’accusa, Giappone sarebbe stato il cassiere della “famiglia” e il “primo collaboratore” di Bonafede senior, che per la Dda avrebbe cercato di riorganizzare la locale cellula di Cosa Nostra. Nell’operazione “The Witness” rimasero coinvolti anche il 48enne fabbro marsalese Sebastiano Angileri e la moglie Vita Maria Accardi. Il primo accusato favoreggiamento e intestazione fittizia, la seconda solo di intestazione fittizia. Già processati con l’abbreviato, il gup di Palermo Nicola Aiello li ha condannati a due anni (Angileri) e a un anno e 4 mesi (Accardi) di reclusione. Escludendo, però, l’aggravante di attività in favore della mafia. A difendere la coppia è stato l’avvocato Carlo Ferracane.