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Scontro di civiltà o incontro di civiltà - Seconda parte dell'intervista al professor Massimo Campanini che oggi interviene sulle questioni democratica e femminile nell'Islam.

“L’Islam è come noi: una cultura mediterranea, europea e occidentale”

di David Crescenzi
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Massimo Campanini

Massimo Campanini

Viterbo – Karl Popper sosteneva che “il mondo delle democrazie occidentali, non è certamente il migliore di tutti i mondi pensabili o logicamente possibili, ma è tuttavia il migliore di tutti i mondi politici della cui esistenza storica siamo a conoscenza”. È un pensiero, di vago sapore leibniziano, che rispecchia il convincimento dell’Occidente di aver creato la forma di Stato migliore mai esistita: la democrazia laica e pluralistica. Ma non potrebbe trattarsi di una visione troppo “occidentocentrica” o comunque miope nell’escludere che l’Islam possa sposare una dimensione della politica egualmente secolare? È in parte la posizione del professor Massimo Campanini, grande orientalista e storico dell’Islam.

Professore, alcuni hanno sostenuto che solo un musulmano secolarizzato, e non un musulmano ortodosso, potrebbe sposare davvero i valori dello Stato laico e pluralistico. Lei cosa ne pensa? 
“La differenza tra musulmano ortodosso e secolarizzato, o secolarista, risponde a un equivoco serio, nel senso che è un equivoco in un certo senso intellettualmente e razionalmente fondato. Ma è pur sempre un equivoco: quello che l’Islam sia “teocratico”, cioè che sia un’ideologia che sposa, per natura, religione e politica. Da decenni ormai io ho scritto e sostenuto, e credo argomentato, che l’Islam non è teocratico, anzi l’Islam è intrinsecamente secolare: in primo luogo, perché non ha clero, quindi non ha chiesa, non ha sistema ecclesiastico strutturato con una fonte dogmatica centrale, come esiste nel Cattolicesimo e nel Cristianesimo ortodosso. Ma questo è abbastanza semplice e evidente. Però, l’aspetto più sottile è un altro e, a questo proposito, faccio riferimento alle teorie di Hassan Hanafi (che è un autore, uno scrittore e un filosofo che mi è particolarmente caro), il quale sostiene, in maniera esplicita, il fatto che l’Islam è appunto secolare, di natura secolare. Ma in che senso? Nel senso che, anche se la sua giurisprudenza ha una base religiosa, e quindi questo fatto sembrerebbe in qualche modo clericalizzare, per dir così, il sistema del diritto e dunque anche il sistema politico, in realtà, l’effetto è esattamente l’opposto: non è la legge che viene sacralizzata, ma è la dimensione del sacro che viene umanizzata, che viene tradotta in pratica sociale.

Allora, nel momento in cui la dimensione del sacro viene tradotta in pratica sociale, è chiaro che la distinzione tra il musulmano ortodosso e il musulmano secolarista non ha più senso di esistere, perché il musulmano è secolarista e basta. Ed è secolarista addirittura alle radici dello sviluppo intellettuale della sua cultura, proprio perché fin dal tempo del Profeta, la sintesi che si è sempre data tra il culto e la società, che implica la distinzione tra quelle che in arabo si chiamano le ibadat (leggi che regolano i rapporti tra Dio e gli uomini, ndr) e le mu’amalat (leggi che regolano i rapporti tra gli uomini, ndr), ha portato a radicare, quale elemento costitutivo del pensare islamico, l’idea che non si sacralizza lo Stato ma si laicizza la religione. È questo il principio fondamentale”.

Quindi l’Islam può accordarsi con i dettami della democrazia occidentale? 
“È evidente che la questione della democrazia di tipo occidentale sia fondamentale per il mondo islamico. Ma, a mio parere, in senso più negativo che positivo. Cioè, sbandierare la democrazia occidentale come panacea per risolvere i problemi del mondo islamico è un’ingenuità, una manipolazione, perché è chiaro che, nel mondo islamico, se ci deve essere una democrazia, deve essere una democrazia declinata in termini islamici, non occidentali. Ma questo perché? Evidentemente, perché la storia è stata diversa. Noi, in Occidente, siamo arrivati alla democrazia seguendo un percorso che è cominciato praticamente con la crisi degli assolutismi, alla fine del ‘600, ed è arrivato fino ai fascismi, ai nazismi e ai regimi militari degli anni ’70 e ’80. Cioè, se noi guardiamo l’Europa, non dimentichiamo che la Spagna o la Grecia o il Portogallo erano governati da regimi fascisti fino all’altro ieri. Quindi, anche in Europa non è che ci si deve riempire la bocca di questa democrazia come se fosse una specie di toccasana, di elisir che risolve tutti i mali. Per cui, naturalmente, quando parliamo di questione democratica nelle società islamiche, dobbiamo renderci conto che la democrazia non va esportata con le armi, come dicevano George W. Bush e i neocons americani all’epoca di Bush (e alcuni, sembra, anche all’epoca di Trump).

Tra l’altro, quando si parla di democrazia con dei musulmani che vivono nei Paesi arabi, cosa rispondono? Che gli occidentali, quando parlano di democrazia, lo fanno “con lingua biforcuta”, perché applicano la democrazia come e quando fa loro comodo. Infatti, se in quei Paesi vengono liberamente eletti dei personaggi che non piacciono, l’Occidente applaude i colpi di stato che li reprimono (come in Algeria nel 1992, nella striscia di Gaza nel 2004 o in Tunisia con l’ascesa di Ennahdha dopo Ben Alì). Insomma, c’è questo predicare bene e razzolare male, questo double standard, di cui forse l’osservatore occidentale, diciamo l’uomo comune, non si rende conto, ma che lì è fortemente sentito, perché nei Paesi arabi si rendono conto del fatto che noi parliamo tanto di democrazia ma teniamo in piedi un regime retrivo e reazionario come quello dei Sauditi. Questa cos’è? Democrazia? È una cosa coerente? Dall’altro parte se ne rendono conto che è incoerente, e quindi ci accusano di doppiogiochismo, di double standard. Così, quando andiamo a proporgli la democrazia, ci rispondono di tenercela, che loro semmai ne vogliono un’altra. La democrazia, se deve svilupparsi nel mondo islamico, deve esserlo secondo categorie che siano proporzionali alla cultura, alla storia, alla civiltà, al retaggio e alla memoria di quel mondo”.

Riformulando la domanda, lei ha scritto che nell’Islam la sovranità è fondata su Dio, non sul popolo. Come si accorda questa prospettiva con una democrazia, intanto, “procedurale” (cioè basata su maggioranze designate da libere elezioni) e, poi, capace di imporre il rispetto di alcuni valori di fondo anche alle maggioranze (ad esempio il pluralismo che, in una visione laica, implica l’uguaglianza di tutti anche se non si riconoscono in un Dio specifico)? 
“Sulla questione della democrazia procedurale la maggior parte degli islamisti sono d’accordo. Il problema, appunto, è quello valoriale, cioè stabilire quali siano i sottintesi fondanti del concetto di democrazia. Però, il fatto che nell’Islam la sovranità sia fondata su Dio e non sul popolo (il che apparentemente sembrerebbe introdurre un elemento di contraddizione) si può superare ricordando quanto dice la maggior parte dei pensatori musulmani contemporanei di tipo riformista: anche se la sovranità è di Dio e dal punto di vista teorico rimane di Dio, la pratica della politica è popolare, perché comunque Dio se ne sta in cielo, non scende in terra fisicamente a guidare lo Stato. Lo Stato è comunque retto e guidato dagli uomini che si vedono trasferita un’autorità politica. Qui, la questione ideologica importante è nella distinzione tra “sovranità” e “autorità”: la sovranità è di Dio, ma l’autorità è del popolo. Questo lo hanno sostenuto teorici islamisti come il sudanese Hassan al-Turabi, scomparso un paio di anni fa, o anche Rachid al-Ghannouchi, attuale leader del partito Ennahdha in Tunisia. Quindi, quanto all’interrogativo se un tipo di democrazia islamica, ammesso che se ne trovino i contorni, possa adattarsi a una forma di governo secolare e pluralistico, la risposta è sì, certamente, anche perché, dal punto di vista ideologico, l’Islam stesso è pluralista, lo è nelle sue stesse forme e manifestazioni, quindi, non è questo il problema, non è questo l’ostacolo”.

E per quanto concerne invece la questione della donna nell’Islam? 
“È un discorso molto ampio e molto lungo che però io sintetizzo in tre punti. La premessa è che bisogna guardare a tale questione, sia chiaro, sempre dal punto di vista dell’evoluzione storica. Detto ciò, il primo punto è che le donne, all’epoca del Profeta, erano emancipate. Questo significa che l’eventuale misoginia è qualcosa che si è sviluppato nell’Islam dopo il Profeta e quindi non è inerente all’Islam in quanto tale ma è connessa all’evoluzione dell’Islam come civiltà e come sistema giuridico-politico in determinati contesti locali e storici.

Il secondo punto, connesso al primo, è che la chiusura degli spazi del mondo femminile all’interno dell’evoluzione dell’Islam è stata provocata dal contatto che l’Islam ha avuto con altre civiltà: si prenda per esempio la questione della circoncisione femminile, che non c’è assolutamente nell’Islam ma che è, perché purtroppo c’è ancora, un’abitudine derivante dalle ancestrali culture africane, che è stata assorbita da certe società islamiche nell’ambito di un processo di contaminazione culturale, ossia un fenomeno che si verifica spesso quando le diverse culture vengono a contatto. Ma lo stesso riguarda anche la questione del velo. Si pensi ai Berberi, che sono musulmani presso i quali il velo lo portano gli uomini e non le donne, oppure si pensi, nell’Islam contemporaneo, al fatto di mettere il velo allo scopo di esaltare la propria identità, anche se a volte con modalità francamente eccessive, almeno in certe forme di estremismo islamico.

Il terzo e ultimo punto riguarda il fatto che la questione della subordinazione, o comunque della chiusura dello spazio femminile, è tipica delle culture mediterranee ed esisteva ben prima dell’Islam. Anche gli antichi greci, fondatori della democrazia, tenevano le donne chiuse in casa, ma non perché i greci fossero antidemocratici, ma perché il mondo mediterraneo ha una particolare concezione della donna, nel senso che le attribuisce l’onore e l’onere (che è prima un onore e poi diventa un pesante onere) di fare da scrigno all’onore della comunità, della famiglia e del clan. E, in quanto scrigno, vuole proteggerlo tenendolo chiuso in casa. È una caratteristica che fa parte di tutte le culture mediterranee: l’Islam non ha fatto altro che recepirla. Allora, se collocata entro tali schemi, la questione femminile assume una luce completamente diversa mostrandoci che, infondo, l’Islam è una cultura mediterranea, l’Islam è europeo, è occidentale; non è qualcosa di alieno o di estraneo. L’Islam è nostro, è come noi”.

Rispetto alla questione dei pregiudizi verso l’Islam, cosa pensa dell’islamofobia? 
“Io penso che l’islamofobia sia stata costruita soprattutto dai mass media. Quando ho cominciato a insegnare l’Islam all’Università, nel 1995, io avevo le aule vuote perché dell’Islam non importava affatto. Era una questione ristretta a un gruppo di pochi specialisti. Ad un certo punto, l’Islam è stato portato alla ribalta dal fenomeno del terrorismo. Ma l’Islam esisteva da ben 1400 anni, cioè già prima di questo terrorismo che esiste da 20 anni. Però, per un Occidente che doveva ripensarsi all’indomani della Guerra Fredda, questo terrorismo capitava a proposito. Infatti, se prima il nemico erano i comunisti, ora che i comunisti non c’erano più, i nostri regimi democratici potevano individuarne uno nuovo, perché di un nemico hanno sempre bisogno, nell’Islam, raccontandolo, grazie all’apporto dei media, come realtà terroristica (non è un caso che al sostantivo “terrorismo” si aggiunga sempre l’aggettivo “islamico”). Hanno creato il mostro e, come in un noto film, lo hanno “sbattuto in prima pagina”. L’odierna islamofobia nasce da questo”.

Non potrebbe essere che, in qualche modo, le paure verso i musulmani originino dal fatto che la società occidentale, sempre più relativistica, teme chi ha davvero fede in qualcosa? 
“Stiamo attraversando, a livello globale, un periodo di profonda crisi: di valori, spirituale, economica, sociale, culturale. All’interno di questa crisi, è evidente che, in tutto il mondo, si affermino gli estremismi: l’elezione di Trump è essa stessa espressione di una forma di estremismo all’interno della società americana, come lo è il ritorno del Ku Klux Klan, di cui sono riapparsi i simboli; tutta l’Europa è piena di partiti neonazisti e xenofobi, è piena di razzismo e di fascismo. Quindi, questo è evidentemente il sintomo che noi stessi siamo in crisi. Noi abbiamo paura dell’Islam e l’Islam ci fa paura perché crediamo che sia l’espressione di una violenza che è intrinseca all’Islam e che non ci tocca, poiché siamo ancora convinti di vivere in una sorta di castello delle fate incantato, in cui solo noi abbiamo il valore, la democrazia, la libertà, la civiltà, la verità, mentre fuori tutto è barbarie. Quindi, è questo tipo di percezione distorta che ci fa temere l’Islam. Ma bisogna ricordare che lo stesso tipo di percezione, quella di essere aggrediti, è la stessa che hanno anche loro. Per cui, occorre coltivare la conoscenza, il sapere e lo studio, allo scopo di portare gli uomini, tutti gli uomini, a rendersi conto che infondo sono accomunati da uno stesso destino, perché le loro non sono realtà assolute. Non esistono realtà assolute e nemmeno la società e la civiltà occidentali lo sono. Tutto quello che è umano, come dice il Corano ma come dice anche l’Ecclesiaste, è destinato a morire”.

David Crescenzi


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27 dicembre, 2017

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