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Scontro di civiltà o incontro di civiltà - La replica del sociologo a Massimo Campanini

Solo un Islam secolarizzato e moderato può sopravvivere in Occidente…

di Francesco Mattioli
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Francesco Mattioli

Francesco Mattioli

Viterbo – La seconda parte dell’intervento di Massimo Campanini su Tusciaweb mi spinge inevitabilmente a muovere alcune osservazioni, di natura filosofica, antropologica e sociologica, alle sue argomentazioni e a porre un quesito urgente.

Tralascio le considerazioni di rito di certo “politicamente corretto” che Campanini evoca per sminuire l’ideologia bellicosa dell’Islam, facendo il paragone con i movimenti estremisti, fondamentalisti, xenofobi e imperialisti prodotti dall’occidente. Fatto sta che a tutt’oggi la violenza antilibertaria e antidemocratica domina in gran parte dei paesi musulmani, mentre in quelli occidentali libertà e democrazia sono ampiamente tutelate e informano le società più avanzate.

Ma andiamo oltre. Campanini sostiene, a proposito della condizione della donna in ambiente islamico, che la marginalità femminile, ricordando la posizione della donna nell’antica Grecia o nel medioevo cristiano, “è una caratteristica che fa parte di tutte le culture mediterranee: l’Islam non ha fatto altro che recepirla.

Allora, se collocata entro tali schemi, la questione femminile assume una luce completamente diversa mostrandoci che, in fondo, l’Islam è una cultura mediterranea, l’Islam è europeo, è occidentale; non è qualcosa di alieno o di estraneo. L’Islam è nostro, è come noi”. Asserzione provocatoria, certo, ma ampiamente discutibile…

A parte che a sentire l’antropologa Marija Gimbutas, il matriarcato era fortemente esteso nelle culture mediterranee preistoriche, non mi risulta che tra i Celti, i Maya o i cinesi del periodo Han la donna godesse di condizioni migliori. E, in ogni caso, la cultura occidentale sta crescendo e sta superando un discriminazione di genere che, in quella musulmana, è tuttora praticata in modo retrogrado e odioso.

C’è ancora un altro punto che lascia perplessi.

Non c’è dubbio che le culture siano un prodotto di circostanze storiche e geopolitiche e che nel Medio Oriente si sia sviluppata una cultura diversa dalla nostra. E’ ammissibile che una società sostanzialmente nomade, necessariamente sincretica e inevitabilmente aggressiva abbia prodotto l’Islam all’alba del VII secolo della nostra; e si comprenderebbero così certi passi del Corano che inneggiano alla violenza.

Ma a tal proposito Campanini argomenta che nell’Islam “non è la legge che viene sacralizzata, ma è la dimensione del sacro che viene umanizzata, che viene tradotta in pratica sociale” e che appare “elemento costitutivo del pensare islamico, l’idea che non si sacralizza lo Stato ma si laicizza la religione”. Distinzione di lana caprina se si concepisce il rapporto tra società e cultura (e quindi anche la religione) non in termini grossolanamente deterministici, ma secondo un modello di interazione in un sistema sociale complesso e storicamente contingente, ad esempio nella prospettiva di Jeffreys Alexander o in quella di Niklas Luhmann…

In ogni caso, Campanini ne deduce che “la democrazia, se deve svilupparsi nel mondo islamico, deve esserlo secondo categorie che siano proporzionali alla cultura, alla storia, alla civiltà, al retaggio e alla memoria di quel mondo”.

Vero, ed è già stato fatto: nel 1981 molti paesi islamici hanno firmato una dichiarazione “islamica” dei diritti dell’uomo limitativa rispetto a quella universale del 1948 e sottostante alla Sharj’a, mentre nella dichiarazione di Bangkok del 1993, sottoscritta da vari paesi asiatici, anche islamici e dittatoriali, si rivendica una visione asiatica dei rapporti tra stato e persona, con la prevalenza degli interessi dello stato (comunista in alcuni casi, teologico in altri) su quelli individuali.

Mi resta difficile tuttavia credere che non sia possibile distinguere tra un Islam secolarizzato in termini “moderati” e un Islam ortodosso. Certo, è complicato realizzare un Islam “nuovo”, “moderno”, secolarizzato in senso moderato, come quello vagheggiato ad esempio da Maadjid Nawaz, fondatore di una organizzazione islamica contro l’estremismo. Intanto, perché si rischia di travasare ideali della filosofia occidentale in una cultura differente; in secondo luogo, perché, come ha giustamente osservato Ernesto Galli della Loggia (e ha confermato lo stesso Campanini), nei precordi della maggior parte degli islamici alberga un malcelato livore verso un occidente democratico a parole, ma che li ha sfruttati in modo esplicito e implicito fino ad oggi.

Tuttavia la frequentazione di ambienti islamici “non ortodossi”, soprattutto di origine balcanica, e persino di cittadini iraniani credenti ma aperti al cambiamento, mi fa pensare che sia possibile un Islam “democratico” e riformista. Certo, deve abbandonare talune applicazioni letterali dei testi sacri e rinunciare al connubio tra stato e chiesa; ma questo lo ha fatto anche il Cristianesimo. A fatica, lentamente, ma lo ha fatto.

In realtà, come dicevo, il problema vero è un altro.

Se, come che asserisce Campanini, è necessario immaginare per i paesi islamici una democrazia “diversa”, ad uso e consumo dei paletti posti dalla religione coranica, allora si pone il seguente quesito urgente: E’ compatibile la pratica della Sharj’a con la cittadinanza di un paese occidentale, con i principi, i valori, le leggi della democrazia occidentale?

Può darsi che nella nostra società i valori della libertà e dell’uguaglianza siano solo un prodotto culturale, non degli imperativi categorici e tantomeno dei valori assoluti (dice che l’assoluto non esiste…) ma allo stato attuale essi sono quelli che regolano i principi etici (cioè regolativi dei comportamenti individuali e sociali di una cultura) dell’occidente e che garantiscono la pienezza della dignità umana ai suoi membri.

Di conseguenza solo un Islam secolarizzato in termini moderati può sopravvivere in una società occidentale: altrimenti cozzerebbe contro certi ideali di libertà, democrazia, laicità, uguaglianza che oggi non sono solo slogan ma vengono ritradotti in comportamenti e in leggi. Anche contro gli estremisti che guardano ai totalitarismi del passato.

Solo un relativismo senza speranza (che non è neppure nelle corde di Popper, sia ben chiaro una volta per tutte…) può mettere alla pari tutte le culture senza sottoporle al vaglio dei valori. La democrazia non consiste nel considerare tutto uguale, tutte le hegeliane vacche di colore nero: sarebbe la morte stessa delle regole democratiche, si verrebbe a creare non un sistema di reciprocità sotto la tutela di valori condivisi, ma una giungla di lupi contro lupi.

Allora, il vero interrogativo è questo: nel caso dei musulmani, ci può essere uno ius soli che non sia accompagnato da una clausola culturale, cioè dal giuramento sui valori della Costituzione, anche se non compatibili con la Sharj’a? Se avesse ragione Campanini a negare la possibilità di un Islam moderato e “occidentalizzato”, quale patto potrebbe essere sottoscritto tra lo Stato democratico e un cittadino musulmano, se il giorno dopo costui contraddicesse le leggi dello stato, ad esempio applicando alla lettera i dettati della Sura 4?

Per carità, è vero: nessuno si metta in testa di esportare la democrazia altrove, senza che trovi terreno adatto per mettervi radici; finita l’epoca del colonialismo, delle conversioni (religiose o ideologiche…) forzose, basterà dare il buon esempio e mostrare semmai che dove c’è democrazia si vive meglio.

Ma nessuno si metta altresì in testa di importare così com’é l’etica islamica, con le sue conseguenze sulla politica, sulla diversità di genere, sulla famiglia, sulla libertà, sulla democrazia. Non appartiene all’occidente (e per favore, che non si tirino in ballo Avicenna e Averroé, che si ispiravano ad Aristotele…).

Francesco Mattioli
già Professore ordinario di Sociologia all’università La Sapienza di Roma


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7 gennaio, 2018

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