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Soriano nel Cimino - A Chia è sprofondato il mondo intero, la nostra civiltà

Tutto è maceria: senza forma, senza senso, senza valore

di Antonello Ricci
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Soriano nel Cimino, Chia - Crolla il paese di Pasolini - Un gatto tra le macerie

Soriano nel Cimino, Chia – Crolla il paese di Pasolini – Un gatto tra le macerie

La Banda del racconto a Chia dopo il crollo

La Banda del racconto a Chia dopo il crollo

La Banda del racconto a Chia dopo il crollo

La Banda del racconto a Chia dopo il crollo

La Banda del racconto a Chia dopo il crollo

La Banda del racconto a Chia dopo il crollo

La Banda del racconto a Chia dopo il crollo

La Banda del racconto a Chia dopo il crollo

La Banda del racconto a Chia dopo il crollo

La Banda del racconto a Chia dopo il crollo

La Banda del racconto a Chia dopo il crollo

La Banda del racconto a Chia dopo il crollo

 

Soriano nel Cimino – Perché il pensiero corra a Pasolini non ci vuole mica la laurea. Ma. Città sospese-appollaiate sulle proprie alture. Non di rado cinte-custodite da splendide mura merlate. Come nella grande pittura italiana da Ambrogio Lorenzetti in poi. Magari frugalmente ma anche-sempre nobilmente compatte nella loro realtà rupestre (parole, quest’ultime, che volentieri rubo a Gianfranco Contini).


Multimedia: Chia sotto le macerie – Video: Crolla il paese di Pasolini – Le macerie dopo il crollo nella notte Crollo nel centro storico


Paesaggi (quelli pasoliniani) poveri genuini assoluti-assolati, ai limiti del deserto e dell’arsione vulcanica. La porta vecchia e la vecchia strada acciottolata che conduceva a Orte… Orte “forma della città” in purezza, campione dell’ideale bellezza italiana. Ma anche la smisurata prora di Bomarzo.

O la Torre perduta dei Guastapane, “incontrata” per caso sul set del Vangelo, riconosciuta-desiderata e, infine, intensamente vissuta.

Le mani colme di sapienza-amore, le mani senza nome e senza volto dei capomastri medievali che innalzarono tutto ciò. Di qui la decisione di battersi, Pasolini, con ardore, rigore, ostinazione. Per difendere questa bellezza anonima e popolare. Bellezza in pericolo. Difenderla dall’incuria e da qualunque progresso a tappe forzate…

Chi non tenga a mente queste poche-importanti cose, non potrà mai rendersi conto per davvero del trauma rappresentato dal crollo di Chia: non un semplice paese (dimenticato e mezzo spopolato) è venuto giù; a Chia è sprofondato il mondo intero. La nostra civiltà.

Queste cose mi vengono in mente mentre cerchiamo di risalire dalla strada bianca che gira tutt’intorno al borgo, riaperta e spianata d’autorità per permettere ad Anna di rientrare a casa, lassù-lassù in cima all’acrocoro. Per permettere, agli sparuti (ma fedeli) residenti tagliati fuori, di mantenere almeno una parvenza di vita “normale”.

Vista da qua sotto l’altura, la rupe tufacea levigata, la tessitura degli alzati-smozzicati, somigliano in pieno alla città ideale secondo Pasolini.

Siamo di ritorno a casa, dopo una mattinata di sole e bellezza e allegria pensosa, spesa passeggiando-raccontando-storie nella vicina Bassano in Teverina (dove l’attuale amministrazione sta lavorando sodo per recuperare il borgo; anche lì: abbandonato a seguito dei danneggiamenti dell’ultima guerra ma anche e ancora demolito e saccheggiato fino a pochi decenni fa).

Passiamo a Chia? Andiamo a vedere? La proposta, formulata da Pietro, è accolta volentieri da me e da Roberto che subito gira il volante direzione-Chia.

Pietro, lo sapete tutti, è l’attore e regista e amico fraterno Pietro Benedetti; Roberto è il percussionista Roberto Pecci (per l’occasione anche fotoreporter, e dei più bravi). La Banda del racconto quasi al completo, insomma. Arriviamo. Parcheggiamo. Imbocchiamo la porta, ahi. Ci mettiamo anche noi le mani fra i capelli: l’unica strada di Chia, mille volte placidamente percorsa sulle orme del Poeta, quella da cui si dipartono vicoli e vicoletti, per lo più ciechi, la strada di Chia non c’è più. Macerie. Solo macerie. Macerie enormi (se non sia troppo infantile rimarcarlo).

La verità è che Chia era in “rovina” (in abbandono) ormai da decenni. Ma un conto è una rovina, un conto sono le macerie. Perché una rovina è un prodotto distillato dal tempo, scrive da qualche parte l’antropologo Marc Augé: perciò essa sa ancora esprimere una propria vocazione pedagogica, sa mantenere forma e senso, esprimere un valore prezioso, farsi testimone per le generazioni presenti e, soprattutto, quelle future.

Qui invece tutto è maceria: senza forma, senza senso, senza valore. Morte di bellezza. Sconfitta di civiltà.

Ci si fanno incontro, costernati, amici che qui hanno scelto, da anni, fra mille comprensibili difficoltà ma con tenacia ammirevole, intelligenza-qualità creativa ed esiti notevoli, di spendere e dispiegare la propria azione artistica: l’attrice-animatrice Anna Zoppo, lo scrittore-camminatore Marco Saverio Loperfido, l’attore e regista Aldo “Paco” Milea e altri. Gente che testardamente ha ribattezzato la deliziosa-accogliente bomboniera consacrata al proprio lavoro culturale “Spazio corsaro” (e ho detto tutto).

Le macerie incombono, ahimè-ahi-loro, fin sulla soglia. Parliamo qualche minuto poi torniamo indietro. Imbocchiamo, come detto, la vecchia strada del circuito esterno, ripulita a forza di benne, che si acciambella a mezza costa, l’unica che oggi può condurre alla rampa dell’antica rocca (di ciò che ne resta).

Arriviamo in cima, finalmente. Dal terrazzo solatio, la serena distanza, la delicata “umana” bellezza del paesaggio italiano contrasta inconsolabile col lacerante crollo alle nostre spalle. Non c’è medicina. Andiamo? Andiamo. Ma mentre scendiamo… c’è un piccolo varco nella rete, non resisto, voglio “ammirare” le macerie dall’alto. Che fate, venite anche voi? No, Pietro e Roberto sono gente ligia alle regole (o forse soltanto stanchi per la lunga giornata).

Vado solo. A un poeta sarà concessa licenza… Ecco, ci sono. Mi affaccio… Eccolo il crollo inquadrato dall’alto, ecco la desolazione da un’altra angolazione. Prendo qualche foto col mio telefonino. (Spero di non ridurmi a una “pornografia” della nuda-indifesa vita, Chia non lo meriterebbe).

I miei scatti, peraltro, vengono malissimo, in genere, da schifo. Capirai, sono pure controluce! Ma è proprio a questo punto che lo vedo: un gatto, un gatto di pelo bianco che, placido e imperturbato come una sfinge, siede e m’interpella. Sul colmo della maceria. Che bello che è. C’è ancora speranza, penso. E faccio clic.

Antonello Ricci


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17 aprile, 2018

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