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La grande politica

Fanfani il rieccolo, onesto e riformatore vero

di Renzo Trappolini
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Amintore Fanfani

Amintore Fanfani

Viterbo – La definizione costituzionale di “repubblica fondata sul lavoro” porta la firma di Amintore Fanfani, economista cattolico, deputato alla Costituente, primo successore di De Gasperi (qualcuno parlò di congiura), ispiratore del centro sinistra, riformatore concreto ed efficace.

Con Moro uno dei due “cavalli di razza” della DC, ma di diversa andatura e pista. “Onesto e morto senza un soldo” scrisse di lui Montanelli chiamandolo però il “rieccolo” per le tante cadute e resurrezioni: sei volte capo del governo, tre segretario Dc e tre Presidente del Senato, tante ministro; respinto dal fuoco amico dei suoi negli assalti al Quirinale; nel 1965 presidente dell’Onu. Lo chiamavano il “motorino” per l’inarrestabile capacità di lavoro e velocità di pensiero.

Lui si diceva “nato sotto il segno del comando”.

Tappo di spumante espulso dalla bottiglia del referendum sul divorzio, nella vignetta di Forattini. Combattè da solo una campagna anche sopra le righe. Pochi i comizi dei colleghi, partito quasi indifferente e lui sugli scudi di un integralismo cattolico guardato a distanza pure da alcuni vescovi.

A Viterbo lo ospitammo, una domenica mattina, nella piccola sala Gargiuli e mi trovai accanto a lui a messa nell’attigua chiesa di Santa Maria Nuova.

Un tappo saltato e l’inizio della fine di un mondo, quello dei cattolici organizzati in politica che nella Costituente e poi nella ricostruzione dopo la guerra perseguirono un modello di società alternativo sia al liberalismo del solo profitto sia al collettivismo comunista centralistico.

Per uno Stato in cui la proprietà e l’iniziativa privata sono libere, ma nell’ambito della utilità sociale e con l’obbligo della repubblica di rimuovere ogni ostacolo all’uguaglianza e alla libertà dei cittadini.

Posizioni queste che i “professorini” dell’Università Cattolica – da dove Fanfani proveniva – avevano elaborato già negli ultimi anni del fascismo, trasfuso nel cosiddetto Codice di Camaldoli del 1943 e attuato quando arrivarono a guidare l’Italia democratica, monitorandone gli esiti in una pensioncina vicino alla Chiesa Nuova di Roma dove la “comunità del porcellino”(dal nome dell’insegna all’ingresso per non essere disturbati) abitava: erano Fanfani, Dossetti (che poi si fece prete) e Giorgio La Pira, il sindaco santo di Firenze che convinse l’Eni di Mattei a salvare la fallimentare Nuovo Pignone perché gliel’aveva ingiunto lo Spirito Santo e, nel 66, ispirato dalla Madonna di Czestochowa andò in Vietnam e fu ricevuto da Ho Chi Min, cui consegnò una proposta di pace.

Malauguratamente la prima moglie di Fanfani ne parlò con la giornalista del Borghese Gianna Preda che non conosceva come tale. Scoppiò un putiferio e il marito dovette dimettersi da ministro degli esteri. Bianca Rosa morì dopo avergli dato molti figli e lui si risposò con Maria Pia, infaticabile quanto lui in missioni umanitarie. La incontrai a palazzo Chigi nell’appartamento del presidente per una iniziativa editoriale a favore dei bambini africani.

Politica e religione si incrociavano allora prima che nelle urne nelle idee, ma, terza persona della Trinità, Madonna o meno, l’intervento pubblico nell’economia era la vera teologia dei professorini con il pieno impiego a priorità economica e compito dello Stato il finanziamento delle imprese per attuarlo.

Una concezione che faceva il tandem con l’allargamento del governo al partito socialista nel centro sinistra che Fanfani ispirò e realizzò.

All’inizio degli anni 60 il suo governo, che dai socialisti aveva solo l’appoggio esterno, fece grandi riforme per portare l’Italia tra le prime nazioni industrializzate del mondo. Fanfani, il quale già con De Gasperi aveva rilanciato l’edilizia economica e popolare col Piano Casa, promosse una grande redistribuzione dei redditi con gli aumenti salariali, la nazionalizzazione dell’industria elettrica, la scuola media unica, la prima riforma urbanistica, la famosa legge Sullo che modificò il regime dei suoli edificabili. Scelte che costarono voti alla DC e a Fanfani Palazzo Chigi.

Il nuovo governo, nel quale per la prima volta entrarono da ministri i socialisti, durò di più ma con meno significativi risultati. Lo guidava Aldo Moro, dal quale Fanfani era diviso su tante cose, dalla concezione del partito (macchina organizzativa sul modello concorrente del Pci per lui; movimento di idee per Moro), alla ineluttabilità di una futura vittoria comunista, secondo Moro.

Ambedue i “cavalli di razza”, però, avevano grande rispetto l’uno dell’altro. Ettore Bernabei – storico direttore generale della Rai e consuocero di Fanfani – notava tra i due atteggiamenti “timidi e guardinghi. Con un retropensiero fisso: io la penso così, ma per caso avrà ragione lui?”

Fanfani se lo sarà domandato anche quando la mattina del 9 maggio 1978 andò a convincere la DC a trattare per Moro, come il prigioniero aveva chiesto. Le Brigate Rosse non lo aspettarono.

La Dc deve a Fanfani la sua organizzazione quasi aziendale con impiegati, funzionari locali e centrali, sedi e attrezzature, organigrammi operativi, dopo gli anni del volontariato degasperiano. Tesseramenti a tappeto, collateralismi sindacali ed imprenditoriali più o meno palesi. E naturalmente costi e finanziamenti dagli americani, per competere con la macchina del Pci ben rodata dai rubli russi, e dalla Confindustria.

Un legame con quest’ultima da cui Fanfani cercò di liberarsi ricorrendo alle “sovvenzioni dell’industria di Stato, non sapendo – ha scritto Cossiga – e non potendo credere che quella prassi sarebbe poi stata considerata un reato”.

Eni, Iri, Efim foraggiavano tutti con contributi a pioggia. Matrice della corruzione in politica di tangentopoli e di oggi (parte di quei soldi si fermavano nelle sedi delle correnti prima di arrivare ai segretari amministrativi) cui si pensò successivamente, ma invano, di porre un freno con le leggi sul finanziamento pubblico dei partiti, bocciato dai cittadini ma riesumato infine dalla classe politica dominante, peraltro avvezza a bypassare i risultati referendari.

L’attivismo di Fanfani niente ha mai avuto di naif o di arrivismo: era solo il modo di attuare il progetto economico e sociale del Codice di Camaldoli con battaglie ininterrotte anzitutto all’interno del partito. La sua corrente, prima Cronache Sociali poi Nuove Cronache, era una falange di fedelissimi, votati in tutto e per tutto a lui.

A Viterbo, nonostante il predominio assoluto degli andreottiani di Jozzelli, contò sempre molti seguaci da Rosato Rosati, il capo a Zibellini, Faraoni, al giovane Pier Luigi Petrella. A lungo in minoranza, poi, con l’avvento di Rodolfo Gigli, a supporto del nuovo leader con significative presenze negli enti maggiori.

Fanfani era venuto per la prima volta in provincia il 25 luglio 1952 ad inaugurare da ministro dell’agricoltura, a Bolsena, una Fiera ortofrutticola e della pesca.

Renzo Trappolini


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22 luglio, 2018

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