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Politica - Un excursus sulla vita di uno degli uomini più influenti della repubblica italiana

Un secolo di Giulio Andreotti

di Renzo Trappolini
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Giulio Andreotti, Attilio Jozzelli e Renzo Trappolini

Giulio Andreotti, Attilio Jozzelli e Renzo Trappolini

Andreotti, Jozzelli e Trappolini

Andreotti, Jozzelli e Trappolini

 

La lettera di Andreotti a Trappolini sull'Università della Tuscia

La lettera di Andreotti a Trappolini sull’Università della Tuscia

Viterbo – Nel 1980 aveva scritto “Ho l’aspirazione di morire in grazia di Dio, il più tardi possibile” e – avesse aspettato solo poco meno di sei anni – il 14 gennaio Giulio Andreotti avrebbe raggiunto il secolo di vita.

Quando fu colpito da malattie trasferite sul corpo dalla psiche ferita con accuse perfino di assassinio, pensò “di scrivere qualcosa per il post mortem”, lettere ai familiari tenute nascoste sotto la biancheria di un armadio da aprire “a babbo morto”. Con grafia rapida e minuta rassicurava moglie e figli “giurando davanti a Dio cui nulla può essere nascosto, che io nulla ho avuto a che fare con la mafia e con l’omicidio di Pecorelli, del generale Dalla Chiesa o di chiunque altro tra gli assassinati. Mi offende particolarmente l’insinuazione che non si sia fatto tutto il possibile per salvare Moro”.

Così, il 25 settembre 1995, “ora che sto per partire per Palermo” dove fu presente a tutte le udienze del suo grande processo.

Il potere che logora chi non ce l’ha, come ripeteva, aveva logorato anche lui che guidò la ricostruzione dell’Italia distrutta dalla guerra già da sottosegretario di De Gasperi e governò a palazzo Chigi, nei ministeri, in parlamento ininterrottamente dal 1947 fino alla morte nel 2013. Con tutti i rischi propri di chi agisce in quella politica che Rino Formica definiva “sangue e merda”. Tra grandi successi e grandi crisi (Governare con la crisi è il titolo di un suo libro), grandi opere e grandi scandali. Tanti processi e altrettante assoluzioni.

Di lui il segretario di stato americano Kissinger – un oriundo tedesco certamente non tenero con gli italiani – notava che “i modi nascondevano una mente politica affilata come un rasoio” e Giovanni Paolo II, in mezzo alla bufera giudiziaria che lo avvolse, volle salutarlo con trasporto sul sagrato di San Pietro ripreso dalle telecamere che ne trasmisero in tutto il mondo l’immagine chiaramente di sostegno. Urbi et orbi.

Filippo Ceccarelli, uno dei più autorevoli giornalisti e scrittori di cose politiche, nel recentissimo “Invano. Il potere in Italia da De Gasperi a questi qua” dice che Andreotti “era uno dei pochi politici che si potevano mandare all’estero senza vergognarsi e la sua fu l’ultima politica estera autenticamente autonoma”.

La longevità gli consentì per tutta la seconda metà del ‘900 di trattare da uomo di maggiore esperienza con i governanti delle nazioni, avendo potuto conoscerne, spesso meglio di loro, i predecessori. Eisenower che, giovanissimo, accompagnò sul Vittoriano per l’omaggio al Milite ignoto, Kennedy col quale in limousine presidenziale assistette al trionfo tributato dal popolo napoletano; Nixon incontrato anche quando “tutti lo snobbavano”, Reagan che da Governatore della California era venuto a conoscerlo a Roma. E poi Indira Gandhi, Nasser, Golda Meir, Adenauer, De Gaulle, Re Baldovino e tutti gli altri fino ai dittatori, da Peron a Fidel Castro, all’ugandese sanguinario Idi Amin Dada che in una visita di stato gli mise a disposizione l’elicottero personale guidato da un pilota napoletano.

Fu punto di riferimento e di snodo delle grandi relazioni internazionali da Mosca a Washington, a Pechino, da Israele alla Palestina, all’India, anche attraverso solidi rapporti privati e confidenziali. Le icone russe che Chrusceev regalava a Litrico, il sarto che avevano in comune; i consigli richiestigli da Kosygin su come stare davanti al papa e soprattutto fumare; Gheddafi di cui fu ripetutamente ospite in tenda anche per parlare del figlio portato a giocare nel Perugia dall’amico Gaucci; la consuetudine fatta amicizia col “nemico” Gromyko, ministro degli esteri sovietico eterno come lui; la cordialità che traspare dalle foto con Arafat e la forse conseguente immunizzazione dell’Italia, pur crocevia del Mediterraneo, dai tanti terrorismi del Medio oriente.

Certo, nelle relazioni col mondo mai gli mancarono appoggi (reciproci) dell’altra parte del Tevere, cosi che per un uomo tanto conoscitore dei misteri del potere quanto schietto come Francesco Cossiga “Le più grandi svolte politiche si sono avute per Andreotti, la più significativa quando l’Italia ha assecondato l’Ostpolitik (l’aperura ai regimi comunisti) di Paolo VI. La Chiesa ha avuto nella politica italiana un solo uomo di fiducia, Andreotti, il segretario di stato permanente del Vaticano in Italia”. Anche da presidente della Repubblica, disse in un libro intervista “mai mi sono permesso di farmi dare la destra da Andreotti né di passare in una porta davanti a lui. Andreotti è stato un grandissimo uomo di governo”.

Uno per il quale “si veniva eletti per operare e non il contrario”. A Viterbo fu sempre il più votato e sempre in contatto con gli elettori cui non mancava mai di rispondere, scrivendo talora a mano anche gli indirizzi sulle buste, incluso il Cap. Ne conservo molte di sue lettere autografe, compresa quella (16 aprile 1977) con cui mi annunciava che il ministro Malfatti avrebbe portato in consiglio dei ministri il disegno di legge per l’Università a Viterbo, da lui ideata e condotta a realizzazione.

 In ogni comune aveva un tramite scelto il più delle volte tra contadini, impiegati, giovani e a Viterbo il suo missus dominicus, commendator Pinci, un giorno intero a settimana era inviato in trasferta per ricevere la gente; raccomandazioni e una grande segreteria al servizio di tutti. Nella Dc viterbese andreottiani lo erano quasi tutti, magari di riti diversi. Ricordo i confronti tra “i miei e quelli di Gigli” per ottenere il riconoscimento di una primogenitura ma, come diceva Franco Evangelisti, mitico suo braccio destro, “nella Dc non si butta niente. Fate come vi pare, basta che portate voti”.

Quando morì, il successore di Cossiga, Giorgio Napolitano – che da comunista fu il primo del Pci ad entrare negli Stati Uniti anche grazie all’intervento di Giulio Andreotti – lo affidò al “giudizio della storia”. Al momento sembrò un po’ poco, ma, a ben vedere, non sono molti quelli che nella “storia” entrano.

Per parte sua il divo Giulio soleva dire “Ho la coscienza di essere di statura media, ma se mi guardo attorno non vedo giganti” e, quand’ero giovane, nel Natale di quarant’anni fa mi ricordò questa frase di Giuseppe Paratore, uno dei primi presidenti del Senato e laico super partes: “Se vi venisse scoramento volgete il pensiero al passato del nostro Paese. Diffidate del facile pessimismo predicato da critici incapaci. Questo passato consente di essere ottimisti. Non dovete aver paura della vita”.

L’ottimismo andreottiano è come quello de I Promessi sposi: “i guai, quando vengono, o per colpa o senza colpa, la fiducia in Dio li rende utili per una vita migliore”. Così Alessandro Manzoni e così Giulio Andreotti nelle lettere post mortem: “Ignoro chi sia dietro le accuse ed in un certo senso dovrei anche ringraziarli perché mi hanno creato un periodo di sofferenza e di umiliazione necessario per la mia anima, dopo che nella vita ho avuto tanto, incarichi, onori, fiducia… che potevo offrire in cambio alla Provvidenza divina?”.

Renzo Trappolini


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14 gennaio, 2019

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