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L'opinione del sociologo -

Il rispetto può essere usato per creare delle barriere, non solo per abbatterle

di Francesco Mattioli
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Francesco Mattioli

Francesco Mattioli

Viterbo – In un mio precedente intervento sottolineavo come prima di indignarsi verso certi atti inqualificabili occorra guardare dentro sé stessi e in ogni caso praticare il rispetto verso gli altri.

Il rispetto è un mondo imbarazzante di azioni, reazioni, valori ideali ed esperienze effettuali che mette a dura prova le nostre vocazioni umanitarie: perché può essere usato anche per creare delle barriere tra gli individui, non solo per abbatterle.

In passato il rispetto era quello preteso orgogliosamente dall’autorità, dal Potere, che portava anche a forme degradanti di umiliazione dei sottoposti, ed è quello ancora oggi concepito dalla mafia per esaltare i soggetti apicali, definiti appunto come “uomini di rispetto”. Non a caso, nella storia il termine rispetto è stato associato soprattutto alle figure maschili, alle figure dominanti, ai “maschi alfa”. Così spesso il rispetto è venuto a mancare nei confronti dei più deboli, perché una società competitiva considera la debolezza dell’altro come una opportunità per prevalere, per incamerare punti a proprio favore.

Viceversa il rispetto verso una autorità superiore dovrebbe sostenersi esclusivamente sulle ragioni della convivenza, del “patto” ugualitario tra gli individui che è alla base della società civile: in questi termini, vale il “rispetto delle leggi”. E’ da questo imperativo etico che si può partire per passare al rispetto inteso come attenzione e comprensione nei confronti dell’altro, quello che è condizione indispensabile del rapporto con l’alterità, con la diversità e quindi di qualsivoglia dialogo. Infatti, non vi può essere dialogo – che è “scambio” – se non c’è reciprocità di considerazione, se non c’è reciproco rispetto.

Nel dialogo interculturale, che l’attuale temperie geopolitica genera inevitabilmente, questa reciprocità è fondamentale, proprio perché la diversità di abitudini, credenze e valori tenderebbe altrimenti ad allontanare i vari interlocutori. Oggi più che mai il discorso sul rispetto si gioca sul riconoscimento della dignità dell’individuo, senza distinzione alcuna di appartenenza sociale, etnica o di genere, toccando anche la massa di relazioni comuni che si creano nelle reti sociali, da quelle tra i singoli individui a quelle tra gruppi, partiti e organizzazioni.

Nei vangeli si dice – non cito alla lettera – che è facile amare gli amici, ma l’importante è riuscire ad amare i nemici. In realtà, nel messaggio evangelico, che è anche il messaggio dell’umanesimo stoico e di quello illuminista, quel che si vuole intendere è che l’altro va comunque rispettato “in quanto essere umano”. Il che non è che esime dalla punizione, dalla correzione, quindi dall’intervento “sociale” nei confronti di un reo: ma ordina di non offendere la dignità della persona, i diritti “inalienabili” che come tale egli possiede.

Tutto ciò è difficile da concepire e da sottoscrivere. Nella nostra società contemporanea il rispetto riempie di sé molte buone azioni e intenzioni: ma la complessità e la dinamicità dei rapporti creati e incentivati dalla globalizzazione conduce ad almeno due paradossi.

Innanzitutto il rispetto viene per lo più negoziato, cioè è il frutto compromissorio di un do ut des, di un accordo; il che fa scadere il fondamento etico del rispetto ad una mera condizione contrattuale.

Inoltre, un attento e leale esame di coscienza ci può rivelare tutti i limiti che esso presenta nella sua pratica quotidiana. Facciamo qualche esempio. Nel macro: quanto siamo disposti a “rispettare” una cultura che ammette la pena di morte, la dittatura, la segregazione delle minoranze, certe forme di violenza, la persecuzione della diversità? Insomma, quanto siamo disposti a “rispettare” l’Isis o il Nazismo? Nel micro: quanto saremmo disposti a “rispettare” colui che ha violentato e ucciso nostra figlia oppure che da ubriaco ha investito e ucciso i nostri cari? Ma, anche senza drammatizzare più di tanto, quanto siamo disposti a rispettare colui che nella vita quotidiana non ci rispetta in parole, opere e omissioni?

Insomma, praticare veramente il rispetto è un impegno difficile se non impossibile da mantenere. Ed è meglio combattere la “buona battaglia” ammettendo in ogni momento le proprie difficoltà e quelle altrui, indignandosi e correggendo certo, ma essendo pronti a capire che tutti noi siamo figli dei nostri tempi e soprattutto delle nostre esperienze.

Peraltro, la buona battaglia sul rispetto non si combatte solo con strategie per così dire “strutturali”. Certo, si può e si deve intervenire con impegno sulla realtà politico-sociale, nelle istituzioni, anche in piazza, al fine di creare le condizioni più favorevoli per amare il prossimo nostro come noi stessi: se rimuovi le ingiustizie e gli squilibri sociali certamente crei un ambiente più favorevole alla comprensione reciproca, alla scoperta della dignità di ogni essere umano. Tuttavia il rispetto verso l’altro, verso tutte le persone in quanto portatrici della sublime dignità dell’essere umano, esige un cambiamento soprattutto culturale, che attiene al mondo delle idee e dei valori. In questo senso, il rispetto dell’altro, della sua dignità e della sua persona, deve essere “appreso”, “interiorizzato” e quindi anche “insegnato”.

Ed è proprio questa una delle sfide più difficili da affrontare nel mondo di oggi: formare al meglio le nuove generazioni, educarle al rispetto della dignità altrui, alla comprensione e alla tolleranza. E’ una sfida difficile perché è necessario argomentare un valore, motivare verso una scelta etica, che non prevede una immediata contropartita, in un mondo dove invece tutto sembra avere un prezzo. Ma occorre farlo senza sbavature retoriche e tanto meno ideologiche.

Perché ci preoccupiamo per le condizioni inumane di vita di tante popolazioni; ci preoccupiamo per il femminicidio e per altri episodi di violenza quotidiana; ci preoccupiamo per quel che accade negli stadi; ci preoccupiamo per quel che si scrive sui social: ma è necessario che gli adulti – a scuola certo, ma anche in famiglia, nel governo della cosa pubblica, nell’agone politico, nella comunicazione mediatica – sappiano veramente dare il buon esempio.

Altrimenti, i giovani destinatari dei nostri discorsi continueranno a considerarci “tutti chiacchiere e distintivo”, come ogni generazione ha fatto nei confronti di quella che l’ha preceduta.

Francesco Mattioli


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14 aprile, 2019

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