Don Vincenzo è Sacerdote dal 2000

Don Vincezo Gallo, sacerdote della Parrocchia di San Marco di Teggiano

"Nella mia storia vocazionale non c’è qualche episodio che richiamasse la folgorazione di Paolo verso Damasco, ma un’indescrivibile spinta nei momenti di adorazione eucaristica"

Attualità
Cilento martedì 03 aprile 2018
di Cono D'Elia
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Don Giuseppe Radesca © n.c.

Da quanti anni è sacerdote e in quali parrocchie è stato parroco?

Son sacerdote dal 23 settembre 2000. Era un sabato nella novena di San Michele Arcangelo, Patrono di Sala Consilina, in cui ho abitato dal 1981. Terminata la specializzazione in Scienze dell’Educazione, ho svolto il mio ministero pastorale a Roscigno e Bellosguardo per 2 anni, poi a San Pietro di Sala Consilina per 11 anni e, da meno di 3 anni, in San Marco in Teggiano. Ovunque ho ricevuto tanto sostegno e amicizia dai fedeli, camminando insieme e collaborando nel realizzare attività che esprimessero la nostra fede, ci aiutassero a testimoniare la nostra speranza e a realizzare carità concreta.

Come è nata la sua vocazione sacerdotale?

In una parola sola direi che è nata nella “ferialità”. Il mio abitare in modo significativo la parrocchia di Sant’Anna mi ha permesso di camminare in modo costante ed insieme a tanti coetanei, guidati da motivati sacerdoti. Il vivere l’anno liturgico e soprattutto la domenica affiancando gioco e formazione proposta dall’Azione Cattolica, senza tralasciare l’impegno scolastico, mi ha portato a respirare la bellezza della Chiesa. Questo ha generato in me l’interrogativo su quale sia il mio ruolo, il mio compito, la mia chiamata all’interno della comunità credente.

C’è qualche episodio particolare che ha contribuito ad orientarla verso questa decisione?

Nella mia storia vocazionale non c’è qualche episodio che richiamasse la folgorazione di Paolo verso Damasco, ma un’indescrivibile spinta nei momenti di adorazione eucaristica. Spinta che capiscono gli innamorati quando sentono che accanto hanno la persona giusta. Spinta che ti dà carica, che ti muove, che fa superare le paure, che diventa “certezza morale” ovvero non una certezza calcolabile, ma quella che sai essere quella giusta per te. Non secondario, ma unitamente a questa spinta, ha avuto notevole importanza la vicinanza dei miei parroci, don Donato Ippolito e don Giuseppe Giudice, ora Vescovo di Nocera-Sarno. La fraternità dei presbiteri di Sala Consilina e i sacerdoti che incrociavo negli appuntamenti diocesani proposti dall’Azione Cattolica mi dicevano, con i loro atteggiamenti, i loro esempi, la loro coerenza e il loro entusiasmo, che esser felici nel sacerdozio è possibile e che probabilmente ero invitato a realizzarlo anche io.

A distanza di anni mi rendo conto che anche la personalità del Vescovo, Mons. Bruno Schettino, mi ha aiutato molto. L’ho incontrato poche volte, ma sempre incoraggiava, proponeva percorsi, era attento alla vita di ognuno. Gli anni di studio presso il Geometra di Sala Consilina hanno coinciso con una bella esperienza di chiesa parrocchiale e diocesana di cui sento grande riconoscenza perché un dono estremamente grande.

Come ha reagito la sua famiglia quando ha saputo della sua intenzione di farsi Sacerdote?

Qualche segnale vocazionale l’avevo dato alla fine delle scuole medie. Sapientemente don Donato suggerì di attendere il diploma. I miei sostennero l’idea del parroco sperando che col tempo io cambiassi idea. Invece le motivazioni e la spinta aumentava e quando andai in Seminario a Napoli mi hanno sostenuto e accettata la mia scelta. Non ne erano contentissimi pur avendo una zia, sorella di papà suora, ma quando mi hanno visto felice nel chiedere il diaconato, che comporta già la scelta celibataria, son finite tutte le resistenze. Sia mio fratello che i miei mi hanno sostenuto con grande attenzione, discrezione e rispetto e tra i tanti episodi che evidenziano tutto ciò mi piace confidare di quando papà mi ha detto: «Abbiamo affrontato tutte le spese che ci competevano per mantenerti in Seminario e negli studi sia a Napoli che a Roma con gioia perché era quello che volevi fare, per un senso di giustizia perché con qualche sacrificio ci siamo riusciti e anche perché se avessi voluto fermarti, non ti saresti dovuto sentire in obbligo per aver studiato qualche anno sulle spalle di altri».

E gli amici? Si sono mostrati contenti o contrari alla sua scelta?

Per molti non è stata una sorpresa, già immaginavano il mio ingresso in Seminario. Talvolta il discernimento della Comunità arriva prima di quello della persona interessata. Mi piace ricordare di come, era un giovedì al mercato, del mese di settembre del 1993, lo confidai ad un caro amico, Tonino, con un pochino di timore perché mi aspettavo frasi del tipo “ti sei fatto convincere”, “ma che devi fare” o simili. Invece si commosse, mi abbraccio e mi disse parole incoraggianti e sottolineò come la società avesse bisogno di persone che si dedichino ai giovani e mi parlò di educazione e di formazione. Quelle parole di un caro amico venivano da un linguaggio laico, ma le ho sempre sentite profetiche visto che poi mi è stato chiesto di specializzarmi in Scienze dell’Educazione e son impegnato nei cammini formativi proposti dall’Azione Cattolica.

Che ricordi conserva degli anni trascorsi in seminario?

Son stato nel Seminario Ascalesi di Capodimonte dal 1993 al 1998. Ne ho ricordi stupendi. Gli anni di Napoli mi hanno immerso in un ambiente contemporaneamente giovanile e concreto. Entusiasmo, studio e fraternità caratterizzavano un cammino serio, non serioso, ma attento alle esigenze di ognuno. Come padre spirituale scelsi un gesuita, Padre Domenico Marafioti. Una scelta preziosa che feci davvero bene e ne sento i benefici ancor oggi. Mi ha aiutato a porre le basi su cui con altre guide, dopo il Seminario, ho continuato il cammino. Durante i 5 anni si son alternati due rettori, don Filippo Luciani e don Raffaele Galdiero. Quando nella turnazione si sapeva che predicavano loro si correva a messa anche con la febbre alta tanto erano sapienti e opportune le loro riflessioni. È stato animatore del mio anno di formazione don Michele Autuoro, ora direttore di Missio. Ci ha guidato bene per i 5 anni. Durante il terzo anno di formazione mi è stato concesso di svolgere attività pastorali presso la parrocchia San Carlo Borromeo nel cuore di Napoli. Confrontarmi con una realtà sociale molto diversa dal nostro territorio è stato per me arricchente e di ampio respiro. Le fatiche della vita comunitaria erano affrontate con l’impegno di tutti. Le interessanti ore di lezione universitaria, la missione in preparazione all’anno giubilare, le catechesi nel carcere di Poggioreale, il volontariato presso le suore della Carità, i diversi corsi di esercizi spirituali sono solo alcuni degli innumerevoli momenti di crescita.

Ha dovuto superare momenti di crisi? E come li ha superarti?

Erano due i punti che diventavano nodi da affrontare. Il primo era l’esempio dei miei genitori che suscitavano in me un interrogativo forte: perché non realizzare una bella famiglia come quella delle mie origini? Il loro esempio di famiglia cristiana era un modello da non sottovalutare, anzi da imitare. Il secondo era la consapevolezza del mio non saper “comandare” e quindi di inevitabilmente trovar difficoltà nell’esser leader di una comunità. Alla fine ha vinto la fiducia riposta in Colui che chiamava!

Da molti anni la Chiesa soffre a causa della carenza delle vocazioni sacerdotali e religiose. A cosa attribuisce questo problema?

Son fenomeni sociali pertanto hanno bisogno di letture al plurale intercettando diversi fattori. Sottolineerei però la grande fatica e, talvolta la latitanza, nel proporre cammini formativi capati ci far fare esperienza di Cristo, di vivere la gioia dell’incontro con Lui in un cammino comunitario ed eucaristico, di generare una vita arricchita dalla fede. Se manca l’incontro con Gesù non si può sceglierlo per una vita a Lui consacrata.

Cosa si potrebbe fare per porre rimedio a questa situazione che lasci molte parrocchie senza pastore?

Il problema a mio avviso non è il numero delle parrocchie senza pastore perché la Chiesa è di battezzati. Voglio dire che l’aver affidato solo ai chierici la guida delle comunità ha dato ai laici un ruolo secondario. La crisi numerica, che si ha in Europa ma non in altri continenti, ci spinge a un cambio che finalmente corregge la nostra prassi e dà ai laici un ruolo di corresponsabilità. Son certo che cammini formativi costanti e seri genererebbe un numero crescente sia di presbiteri che di laici ben motivati.

C’è un aspetto cruciale da cui partire per riflettere sul futuro delle nostre comunità?

Lo individuo nella formazione personale e comunitaria. Sembrerò ripetitivo, ma oggi c’è bisogno di formazione e di percorsi seri atti a realizzarla. La formazionenon è un solo atto di trasmissione di informazioni, ma è un leggere la vita alla luce della Parola così da illuminarla, cambiarla e orientarla. Si pensi al taccuino, che non è un semplice diario, ma permette di guardare alla propria storia inserita in una storia più grande, vissuta con Dio compagno di strada in questo tempo ricco di sfide e possibilità nuove. Una liturgia bella e la regola di vita darebbero un gusto nuovo di affrontare la quotidianità vissuta insieme ai fratelli.

Il 2018 è l’anno del Sinodo dei Giovani. Cosa si può fare per avvicinare i giovani alla Chiesa?

I giovani di oggi si rapportano tra loro e col mondo in molto diverso da come vivevo io la giovinezza 20 anni fa. Ma gli interrogativi son gli stessi. Ho guidato la pastorale giovanile fino a 6 anni fa e già percepivo la fatica di aver un tesoro vero e liberante da voler trasmettere, ma i canali comunicativi che a me avevano trasmesso tanto non intercettavano più le nuove generazioni. Dobbiamo allora affiancare i giovani, ascoltarli senza alcun preconcetto, più che offrire risposte già scoperte da altri e cercarle insieme. In questo nuovo contesto individuo nella testimonianza il paradigma dell’incontro. Voglio dire che molti giovani contestano la Chiesa, sono inorriditi dagli scandali. Nonostante ciò mai mi hanno mancato di rispetto, ma mihanno osservato per constatare se in me ci fosse coerenza tra il mio dire e il mio agire. La testimonianza apre le porte ad un oltre, genera la presa in considerazione di un’opportunità, dà credibilità ad un orizzonte di senso cristianamente ispirato.

La famiglia è chiesa domestica; cosa si sente di dire alle famiglie della sua comunità parrocchiale per accompagnarle nel loro percorso di fede, specialmente in preparazione alla Santa Pasqua?

Questa domanda mi ha fatto ricordare un simpatico articolo apparso su Avvenire di qualche anno fa. Riportava le tre T dell’amore coniugale. La Tavola, il Talamo, la Toilette. I primi due li comprendiamo subito riconoscendo nella Tavola il momento alto della condivisione, del dialogo, dell’incontro intergenerazionale e del ritrovarsi uniti come nella mensa Eucaristica. Il Talamo ci riporta all’amore fecondo, alla maternità e paternità responsabile, al rispetto della corporeità. È la Toilette che va a simboleggiare il luogo dell’amore che si concretizza nell’aiuto basilare della pulizia ai neonati come agli anziani o malati, l’attenzione al limite grande dell’altro. La Pasqua credo possa aiutarci a purificare questi tre ambienti riconoscendo il Risorto che affianca i nostri percorsi come accadde ai due viandanti in cammino verso Emmaus.

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