Le ultime bordate le ha tirate proprio ieri. Prima contro gli strepiti leghisti che avevano nel mirino la Cassazione per la vicenda dei 49 milioni di euro da sequestrare "ovunque siano". "Le sentenze vanno rispettate, e questa è una sentenza definitiva che va rispettata. Tutto qui". La seconda sulla circolare mandata ai prefetti da Salvini per dare una stretta al diritto d'asilo: "Per i richiedenti asilo si deve rispettare la legge, che è chiara, e le commissioni territoriali fanno e faranno il loro lavoro".

E sono solo le ultime stoccate lanciate da Roberto Fico a Matteo Salvini. In poco più di un mese di governo ne contiamo almeno cinque: un presidente della Camera che prova ad incarnare l'anima più di sinistra del Movimento 5 Stelle, sempre più insofferente alla "prepotenza" politica del Carroccio che sta di fatto monopolizzando il governo e il dibattito pubblico.

È lui, nel totale silenzio del governo giallo-verde sulla vicenda e proprio mentre Salvini è impegnato nel braccio di ferro sull'Aquarius, ad andare alla tendopoli di San Ferdinando, in Calabria, per portare le condoglianze dello Stato agli amici e ai familiari di Soumayla Sacko, il bracciante maliano ucciso a colpi di fucile lo scorso 2 giugno.

È lui, dopo una decina di giorni, a replicare subito alla proposta di Salvini di censire i rom definendola "incostituzionale". E questa è anche l'unica occasione in cui gli viene in soccorso Luigi Di Maio.

È ancora lui, dopo un'altra decina di giorni, a dire che no, lui i porti non li chiuderebbe: "Come terza carica dello Stato dico che bisogna essere solidali con chi emigra, sono storie drammatiche che toccano il cuore. Io i porti non li chiuderei".

Fico e Di Maio
Fico e Di Maio
Fico e Di Maio

Un crescendo di distinguo, insomma, e non solo dal ministro dell'Interno. Se Di Maio difende Salvini, che con la storia dei 49 milioni "non c'entra nulla", Fico dice che le sentenze della Cassazione vanno rispettate. Se Fico rivendica la sua maggiore apertura alle ong e all'accoglienza dei migranti, Di Maio bolla il tutto come "opinione personale".

Un presidente della Camera contro, che cammina su un filo molto sottile, stretto com'è tra il suo ruolo istituzionale e quella maggioranza parlamentare che glielo ha dato e che vede come sempre più distante dalle sue idee, soprattutto in tema di immigrazione. Degno erede di chi lo ha preceduto, almeno nel terzo millennio.

Già, perché tutti i presidenti della Camera dal 2001 in poi sono dei presidenti contro, dei grilli parlanti dell'esecutivo. Da Pierferdinando Casini a Laura Boldrini, passando da Fausto Bertinotti e Gianfranco Fini. L'hanno ribattezzata, già prima che arrivasse Fico, la “maledizione” dei presidenti della Camera.

Casini e Berlusconi
Casini e Berlusconi
Casini e Berlusconi

CASINI - BERLUSCONI - Cominciamo dal 2001 e da Casini appunto. Viene eletto sullo scranno più alto di Montecitorio e lascia la guida dell'Udc a Follini: subito entrambi danno il via a una serie di distinguo e di critiche al governo Berlusconi. Le scintille tra capo del governo e presidente della Camera sono quotidiane, un vero e proprio stillicidio che farà dire al Cavaliere – nella campagna elettorale successiva – che non era riuscito a realizzare tutto il programma di governo per colpa di Casini. Resta negli annali la citazione evangelica del centrista: "Mi hanno chiesto un consiglio. Ma può un cieco guidare un altro cieco senza che finiscano tutti e due nel burrone?".

Fausto Bertinotti
Fausto Bertinotti
Fausto Bertinotti

BERTINOTTI E PRODI "POETA MORENTE" - Nel 2006 arriva la breve parentesi di Bertinotti a Montecitorio e Prodi a Palazzo Chigi, in un governo caratterizzato dalle enormi contrapposizioni – soprattutto con l'estrema sinistra – causate da una maggioranza risicata e troppo variegata. Il leader di Rifondazione Comunista accompagna alla porta l'esecutivo, che sarà buttato fuori definitivamente da Clemente Mastella per vicende giudiziarie. L'allora leader di Rifondazione definisce Prodi "il più grande poeta morente". Quando l'esecutivo ottiene la maggioranza per un paio di voti al Senato dice che "il malato ha preso un brodino". Fino al lapidario: "Il progetto di governo è fallito". Un avviso di sfratto che sarà poi eseguito dal leader dell'Udeur.

Fini e Berlusconi
Fini e Berlusconi
Fini e Berlusconi

"CHE FAI, MI CACCI?" - Due anni dopo – tanto dura il governo Prodi – il Cavaliere torna a Palazzo Chigi, mentre sullo scranno più alto di Montecitorio ci va Gianfranco Fini. Le durissime prese di posizione di Fini, soprattutto su questioni giudiziarie ed economiche, sfociano nell'ormai famoso scontro aperto del 22 aprile 2010, durante la direzione nazionale del Pdl. Quando Berlusconi dal palco lo attacca e lo invita a lasciare la presidenza della Camera, Fini si alza e facendo ampi gesti gli dice: "Che fai, mi cacci?". È la rottura definitiva, il liberi tutti: da allora bordate senza esclusione di colpi anche nelle trasmissioni televisive, poi Fini fonda Futuro e Libertà per l'Italia (FLI).

Renzi e Boldrini
Renzi e Boldrini
Renzi e Boldrini

BOLDRINI VS RENZI - E veniamo ai giorni nostri, e a Laura Boldrini che critica ripetutamente il governo Renzi: sul jobs act, sul referendum costituzionale, sulla legge elettorale, sul decreto Rai. “L'idea di avere un uomo solo al potere, contro tutti e in barba a tutto a me non piace”, afferma. Poi si candida con Liberi e Uguali (LeU), contro il Pd.

Fico è in buona compagnia, insomma. Deve solo augurarsi di non fare la fine di chi lo ha preceduto. Già, perchè di maledizione dei presidenti della Camera pare essercene anche un'altra: sono tutti destinati, chi più chi meno, all'irrilevanza politica. Boldrini resiste almeno in Parlamento, nonostante il pessimo risultato di LeU alle scorse elezioni; anche Casini, che però dalla rottura col Cavaliere non è più rilevante e ago della bilancia come ai bei tempi. Discorso diverso per Fini e Bertinotti, che sono letteralmente scomparsi dalla vita politica e da quando hanno lasciato lo scranno più alto di Montecitorio non sono stati più eletti in Parlamento.

Davide Lombardi

(Unioneonline)

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