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Il “socialismo feudale” di Pier Paolo Pasolini

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6 Novembre 2017

Pier Paolo Pasolini è stato un tipico rappresentante, forse il maggiore, della cultura antimodernista che, sotto vari emblemi e diverse forme, vigoreggia nel nostro paese e che, non per caso, intorno a lui ha costruito un vero e proprio culto. Un culto di carattere populista, che ha trovato ancora una volta espressione in un ricordo a lui dedicato, apparso proprio in questa rubrica. Con le sue radici ben affondate negli anni Cinquanta, ‘età d’oro’ di quel mondo popolare premoderno puro e incorrotto pósto ai confini tra le borgate e la campagna, e da lui sempre vagheggiato, lo scrittore friulano elevò infatti a paradigma antropologico e poetico un sogno personale che nasceva dalle sue «buie viscere», articolando, in nome di quel paradigma, una negazione, tanto impietosa quanto disperata e tanto accusatoria quanto nostalgica, di tutto ciò che sarebbe accaduto dopo, dai moti del Sessantotto, allorquando esaltò i poliziotti «figli del popolo» e denigrò gli studenti «figli di papà», al ‘doppio potere’ incarnato dal Palazzo, di cui còlse, con simpatetica intuizione, il volto demonìaco e perverso. La sua opera di poeta, di romanziere, di critico e di regista cinematografico, tra le “Ceneri di Gramsci” e la “Religione del mio tempo”, tra “Ragazzi di vita” e una “Vita violenta”, tra la rivista “Officina” e il film “Accattone”, ebbe sempre come oggetto e come soggetto lo stesso mondo di esperienze e di memorie, un ‘tempo perduto’ trasfìgurato miticamente in elegia e in tragedia.

   Uomo di successo, ‘compagno di strada’ del partito comunista italiano in cui vedeva, sospinto da un populismo romantico e decadente, una sorta di ‘città di Dio’ operante su questa terra, intellettuale raffinato cui piaceva giocare a pallone con i ragazzini, sempre, come ìndicano i titoli delle sue stesse opere, alla ricerca della Vita, diventò con il suo indimenticabile ‘j’accuse’ al gruppo dirigente della Democrazia Cristiana, lui che ebbe a definire se stesso «riformista luterano», la coscienza critica del nostro paese nella prima metà degli anni Settanta. In questo paese che, dopo decenni di pesante arretratezza, di bolsa retorica imperiale e di sostanziale provincialismo, con la liberalizzazione degli scambi, l’avvìo dell’integrazione europea e il ‘boom economico’ cercava una via di sviluppo all’altezza dei tempi e si sforzava di coniugare modernizzazione e modernità, Pasolini assunse la parte del fustigatore dei peccati del mediocre consumismo italico. Marx, se avesse potuto conoscere la polemica pasoliniana contro la «nuova cultura» e contro i tratti criminali e criminogeni della «mutazione antropologica» indotta dal consumismo, avrebbe classificato il suo autore tra gli esponenti del “socialismo feudale”, categoria che annovera nel Novecento non pochi esemplari di alto livello: da Eliot a Pound, da Gide a Céline.

   Riascoltando certe interviste rilasciate da Pasolini, è difficile non avvertire ancora una volta, in quella voce sottile e quasi in falsetto, un colore di morte, l’equivalente fonetico di una vicenda tragica, prodotto di una pianificata confusione tra arte e vita, tra letteratura ed esistenza. Ad oltre quarant’anni dalla fine che concluse tale vicenda, se siamo in grado di comprendere molto meglio di allora che essere orfani è la condizione per diventare adulti è anche perché riteniamo di conoscere la risposta alla domanda che il testimone, il profeta e, da ultimo, la vittima di quel destino pose a se stesso e a tutti noi: «Ma come io possiedo la storia, / essa mi possiede; ne sono illuminato: / ma a che serve la luce?».

Eros  Barone

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