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Economia & Impresa sociale 

I monaci ci insegnano l’economia civile

Dalla birra artigianale al turismo così l’Italia sta riscoprendo la storica tradizione dell’impresa sociale a matrice religiosa

di Marco Dotti

Racconta lo storico Ernst Kantorowicz che un giorno gli capitò di trovare nella cassetta della posta un bollettino liturgico, pubblicato da un'abbazia benedettina negli Stati Uniti.

Subito, confessa nella Prefazione ai Due corpi del re, un classico degli studi storici e politici sul medioevo, la sua attenzione cadde sull'editore dell’opuscolo, «The Order of St Benedict Inc.», e su quel suffisso: “Incorporation”.

Per uno studioso «proveniente dall'Europa e non abituato alle sottigliezze del pensiero giuridico anglo-americano», prosegue Kantorowicz, «nulla avrebbe potuto essere più sconcertante del trovare l'abbreviazione “Inc.”, usuale per le società commerciali o d'altro tipo, connessa alla venerabile comunità fondata da san Benedetto sulla collina di Montecassino nello stesso anno in cui Giustiniano aboli l'Accademia platonica di Atene».

Che cosa c'entrasse un ordine monastico con una società a responsabilità limitata (corporation) gli fu chiaro di lì a poco, quando un amico lo «informò che le congregazioni monastiche erano davvero considerate corporationin questo Paese, che lo stesso valeva per le diocesi della Chiesa cattolica e che, per esempio, l'arcivescovo di San Francisco poteva figurare, nel linguaggio giuridico, come corporation sole», ovvero un’entità giuridica costituita da un unico ufficio.

Economia monastica. Un paradigma per la transizione?

A fare questione nell'aneddoto raccontato da Kantorowicz in apertura del suo capolavoro è chiaramente l'intreccio fra teologia ed economia e tra teologia e diritto che ancora oggi costituisce la tramatura, spesso nascosta, della nostra cultura.

Ma a colpire è anche la sorpresa, comune a tanti, che comunità non profit per vocazione, missione e storia possano darsi una forma che in qualche modo le avvicina al mondo secolare. Eppure, osserva Pierre Musso, emerito dell’Università di Rennes, «tutto ha inizio nei monasteri» e già alla fine del XI secolo, dopo la rivoluzione organizzativa dell’ora et labora di San Benedetto, presa a modello di gestione e di governance persino dai pirati più visionari della Silicon Valley, l’accelerazione della circolazione monetaria e la moltiplicazione del valore degli scambi trasformano radicalmente l’organizzazione monastica. E con essa il mondo del capitale.

Il monastero, che avrebbe potuto essere unicamente un luogo di preghiera ostile all’economia, diventa così un centro produttivo di economia e di senso. E i monaci, osservava il medievista Henri Pirenne, finirono per diventare «educatori economici» e pionieri di un’idea d’impresa radicata nel bene comune.

La Francia e il modello

«Quand monastères rime avec bonnes affaires», quando i monasteri fanno rima con i buoni affari. In Francia è diventato un detto comune. Oltralpe, infatti, hanno cominciato a fare i conti sull’economia monastica. Oggi, in Francia ci sono 340 abbazie in attività, gran parte si dedica unicamente a preghiera e spirito. Ma quelle (circa la metà) che hanno anche un’attività artigianale producono oltre 4mila tipologie di prodotti, dalle confetture al cioccolato, dalle tisane alle creme, commercializzate sotto un “marchio” monastico. Il mercato, che nel 2016 era stimato in 70 milioni, è cresciuto e nel 2018 ha sfiorato i 90 milioni di euro.

In Francia, il «made in abbayes» è sottoposto a un regime fiscale agevolato, certificazioni etiche e di qualità. Ed ha incrementi esponenziali delle vendite online. Anche perché dal 1989, esiste un marchio e un’associazione, Monastic, per la tutela contro contraffazione e raggiri. S

oprattutto, osserva Marie-Catherine Paquier dell’European Business School di Parigi «i monaci controllano la loro rete di distribuzione, che è multicana- le, multiforme, religiosa e secolare, ma sempre con un dna comunitario». Si sono fatti impresa. D’altronde, a chi gli chiedesse dove avesse trovato ispirazione per la sua “architettura” aziendale, una volpe come Caprotti, il fondatore di Esselunga, rispondeva: «In San Benedetto. Le aziende sono i monasteri della nostra età».

E l'Italia?

In Italia, però, non ci sono dati omogenei. Tutto è frammentato (si stimano 20 milioni di euro di fatturato), ma nonostante tutto funziona: i trend di analisi di mercato mostrano che la richiesta aumenta, soprattutto nel settore del biologico e del fair-trade, ma ognuno fa ancora per sé.

Accade che molte comunità non abbiano nemmeno un sito web, così come non esiste un rapporto omogeneo con grossisti e retailer. L’officina monastica — così la chiamava San Benedetto — non si è ancora fatta azienda e si serve per lo più di punti vendita diretti, accessibili ovviamente a chi si reca sul posto negli orari di apertura al pubblico. La maggior parte delle comunità monastiche produttrici vende per corrispondenza o tramite i negozi sul territorio dei propri rivenditori.

Solo nel settore dell’ospitalità le cose si muovono, come dimostra l’utilis- sima guida – la prima in Italia – pubblicata da Silvia Testa e Pietro Rimoldi Abbazie e siti cistercensi in Italia 1120-2018 (Arti Grafiche Parma, 2018). Una mappa. In attesa che i tanti punti sparsi sul nostro territorio facciano sistema.

Nonostante tutto… l'Italia

Circular economy, transizione ecologica, bio e km 0, commons: sono oggi alcuni degli ambiti in cui l’economia monastica sa già dire la sua.

Birre artigianali, lozioni, cosmetica di qualità e agricoltura biodinamica, ospitalità e turismo, istruzione, ristorazione, neo artigianato: nessuno ha ancora fatto i conti in tasca al sistema dell’economia monastica. Anche perché il sistema è ibrido e spesso monasteri e abbazie sono in gestione a laici. Ma quella monastica non ha cifre da economia residuale. Per farsi un’idea, basterà ricordare i dati della Borsa del turismo religioso internazionale secondo le cui stime ci sono 350 milioni di turisti religiosi nel mondo, con un giro di affari stimato in oltre 18 miliardi di dollari.

L’Italia, in questo, gioca un ruolo primario con i suoi 1.500 santuari, le sue 30.000 chiese, i suoi 700 musei diocesani e, appunto, i suoi monasteri e conventi dove è concentrato gran parte del patrimonio artistico del Paese. L’Istituto Nazionale delle Ricerche Turistiche, da parte sua ha stimato in 5,6 milioni le presenze annue di turisti religiosi in Italia.

Quello monastico, oltre che un settore economico, è soprattutto un paradigma per la transizione a un sistema di economia civile. Cistercensi e francescani, ricorda ancora il professor Musso, contribuirono «a far nascere un pensiero economico e un’azione tecnica», propagando (i cistercensi) reti commerciali e permettendo (i francescani, anche con la loro condanna dell’usura) la codificazione del mercato del credito, riconoscendo il valore e il senso dell’attore economico che reinveste la ricchezza guadagnata.

Chi – e sono in tanti stando ai numeri e ai dibattiti che, soprattutto in Francia, sono oramai usciti dai luoghi accademici – oggi guarda all’economia monastica come un paradigma di cambiamento e non solo come a un cliché per produzioni di nicchia rimarca la necessità di una nuova teologia d’impresa.

Ovvero uno spirito, spiega il benettino Hugues Minguet, fondatore dell’istituto “Sens et croissance” (Senso e crescita), che guidi l’agire.

Ma non è solo questione di management. Benoît-Joseph Pons, imprenditore e autore dell’interessante L'économie monastique. Une économie alternative pour notre temps( Ed. Peuple Libre, 2018), racconta che nell’economia monastica l’elemento cruciale è la dissociazione fra lavoro e retribuzioni. Si tratta, spiega, «di una forma di attuazione del reddito universale, ma anche di un modello di cooperazione fondato sulle capabilities».

Il monachesimo benedettino, racconta ancora padre Minguet, «è senza dubbio la multinazionale più vecchia al mondo». Questo fatto, prosegue, «prova che la nostra tecnica di “management monacale” – la Regola di San Benedetto – funziona».


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