Sul razzismo

Un punto di Andrea Bocchiola sul razzismo in Italia e in Europa
Sul razzismo

L’Afro-Black History Month che si celebra questo mese negli Stati Uniti è una splendida occasione per fare il punto sul razzismo (e il populismo, le due cose vanno insieme) in Italia e in Europa.

E non è un bel punto. Basterebbe una piccola peregrinazione nel mondo dei social per accorgersi che tutti gli ingredienti per una spaventosa impennata del razzismo in Italia vanno addossandosi con matematica precisione: intolleranza, populismo, insofferenza verso lo stato di diritto e la democrazia rappresentattiva, e questo solo per citarne alcuni.

Come una burrasca dai marosi sono sempre più violenti e irresistibili, il razzismo populista attraversa e sconquassa l’Europa e il mondo occidentale. Le poche parole sagge che qui e là si sollevano e provano a resistere, poco possono contro un sentire viscerale che prima ancora che contro l’altro, lo straniero, il migrante, si scaglia contro l’impresa stessa del pensare.

L’Europa intera segna il passo, drammaticamente stenta davanti al quel progetto, fatto di laicità e diritto, di libertà, coscienza critica e illuminismo, che è il suo il patrimonio culturale più prezioso. Forse non è mai stata, ma certo ancor meno lo è oggi, all’altezza di quell’ideale di cittadinanza, incarnato nella figura del citoyen, che è il cuore politico del suo progetto democratico. E il razzismo dilagante, l’acefala protesta contro la presenza dello straniero ai nostri confini, sono solo uno dei sintomi, forse il peggiore, di questa fatica e di questa crisi che riguarda tutti noi e che presto vedrà il mondo della cultura, delle università e delle biblioteche prendere il posto del migrante nel gioco della paranoia populista.

Ma andiamo per gradi. Partiamo dal sintomo di questa crisi. Partiamo dal razzismo e dalla minaccia che fa presagire il suo dilagare. Più precisamente partiamo dal problema dello “straniero”, di cui il migrante è l’esemplare rappresentante in questo momento.

Ciò che rende straniero lo straniero non è altro che la sua estraneità radicale. Il suo essere irriducibilmente altro da noi, il fatto che in lui qualcosa resiste alla nostra capacità di capirlo, comprenderlo e integrarlo nel nostro orizzonte simbolico. E la prova provata del nostro incontro con l’Altro non è altro che lo shock grazie al quale scopriamo che in nessun modo lo possiamo integrare e metabolizzare. La scoperta anche traumatica che lo straniero è portatore, per il semplice fatto di esistere, di un’alterità radicale che rimarrà per noi sempre indigeribile.

Paradossalmente ma neanche troppo, è proprio questo l’elemento decisivo che la cultura dell’integrazione sistematicamente rimuove. L’illusione dell’integrazione sta nella pretesa di incontrare l’Altro senza l’esperienza dello shock, senza lo scontro con la sua estraneità irriducibile. E proprio in questa scotomizzazione che il nocciolo del razzismo contemporaneo deve essere colto. È in questa contraddizione performativa che colpisce le stesse politiche dell’integrazione e di cui la cultura liberal si fa promotrice, che va individuata la sua genesi recente. La xenofobia postmoderna riposa e cresce nei gangli stessi dell’ideologia dell’integrazione.

Del resto, l’aporia che colpisce il pensiero dell’integrazione la ritroviamo tal quale nell’ideologia della tolleranza. Sebbene sia penoso ammetterlo, la verità oscena della tolleranza è che si tollera solo quello che possiamo rendere uguale a noi. Quello che di principio possiamo ridurre a nostro Alter Ego. Ridurre l’Altro al Noi è la logica profonda della tolleranza (e della empatia che un certo psicologismo d’accatto promuove per ogni dove), il suo canone di lavoro, la sua invisibile violenza. E se qualcosa resiste a questa omologazione di principio, ecco che la tolleranza - è esperienza di vita quotidiana di noi tutti - subito si trasforma in una intolleranza sovrana che non conosce confine e limite alcuno.

Naturalmente accettare l’Altro senza la sua alterità scomoda e indigeribile, ha un costo culturale e sociale insieme. L’ulteriore paradosso della tolleranza liberal, è dunque che lo straniero viene tollerato solo a distanza. La nostra capacità di integrazione e tolleranza è garantita dal fatto che ci si muove nell’ambito protetto dell’upper class culturale o della sublimazione culturale. In termini più brutali, quell’upper class liberal che giustamente difende la bandiera dell’integrazione e della tolleranza, e alla quale, a scanso di equivoci, appartiene anche il sottoscritto, è capace di sostenere l’incontro con lo straniero solo nelle chiacchiere accademiche, nell’idealismo coraggioso delle ONG, nella meraviglia dell’arte e nelle prelibatezze della cucina etnica, ma certamente non nei luoghi incandescenti del conflitto sociale, dell’antagonismo di classe.

Non andrebbe mai sottovalutata la violenza invisibile e sistemica con la quale la cultura liberal ha lasciato a quello che Marx avrebbe chiamato sottoproletariato, il costo dell’integrazione sociale e dell’incontro con lo straniero. Incontro che è fatto di classi di scuola primaria in cui la presenza degli stranieri è massiccia, di spazi cittadini in cui la depauperazione regna sovrana, di un mercato del lavoro della disperazione, che forse, nel comodo di un salotto, non riusciamo neppure lontanamente a immaginare.

Da questo punto di vista, anziché dedicarci all’indispensabile ma perfettamente inutile esercizio di stigmatizzazione delle scempiaggini populiste che inondano i quotidiani nazionali e, peggio ancora, i social contemporanei, sarebbe più utile cominciare a decostruire, pianamente, consapevolmente e fiduciosamente, quegli ideali della tolleranza e dell’integrazione che ci sono tanto cari, almeno per la parte che riguarda la loro collusione con il ritorno del razzismo (e del fascismo). Non fosse altro che per cominciare a prevenire l’esplosione, dal momento che il suo ritorno è già all’ordine del giorno.

Del resto, e neppure tanto paradossalmente, non possiamo affatto contare sul dialogo con il populismo, nella speranza naif di riportarlo alla ragione. E non solo perché anche l’ideale del dialogo nasconde dentro di sé i segni di quell’intolleranza che avvelena il progetto dell’integrazione e della tolleranza - in fondo un dialogo è sempre un incontro tra potenze e il suo scopo non è mai la mediazione ma il sopravvento. Ma non possiamo contare su un dialogo possibile con la xenofobia, perché ciò che la contraddistingue è il profondo rifiuto della forma dialogica necessario alla vita democratica.

Come la Storia dovrebbe insegnarci, il sottoproletariato sociale e, almeno in Italia, anche culturale (e qui dovremmo aprire una parentesi sulla “liquidità” tutta italiana di titoli di laurea privi di sostanza e non solo di un mercato del lavoro), una volta abbandonato a se stesso reagisce, davanti allo spauracchio dell’immigrazione, gettandosi felicemente nella xenofobia più ottusa. Ma prima ancora di questo, il sottoproletariato reagisce alla paura schierandosi contro la democrazia rappresentativa (se non contro la democrazia tout court). Reagisce diventando sorda alla ragione, intollerante di qualsiasi contesto pragmatico e persino legale. Reagisce rifiutando quella soggettività razionale, laica e illuminista nella quale la democrazia si incarna e conterò ogni possibile dialogo politico.

A nulla infatti vale, in questo momento del dibattito, in Italia come in Europa, pubblicare studi e dati che dimostrano l’inesistenza di un’invasione di migranti o il divario tra la percezione patologica della loro presenza e la realtà dei numeri, che è enorme. Poco serve ricordare che la popolazione immigrata in Italia è stazionaria da anni mentre la presenza dei migranti regolari è un vantaggio per l’INPS. Nemmeno è utile rimarcare che l’assegnazione delle case popolari alle famiglie degli stranieri regolarizzati, è subordinata ai requisiti di legge e che, per quanto possa sollevare polemiche, la legge viene prima della pancia del populismo. A niente vale sottolineare, contro chi sbraita di rimpatri coatti o dell’abbandono in mare dei migranti, che esistono un diritto internazionale e un diritto del mare a cui lo Stato italiano deve attenersi. Ancor meno è di qualche utilità sottolineare che le leggi che garantiscono dei diritti ai migranti e agli stranieri, sono le stesse leggi che garantiscono il privilegio di vivere in una democrazia e non sotto un regime totalitario.

Non valgono i motivi della ragione perché troppo forte è l’urgenza di trovare un persecutore, di accusare qualcuno di insinuarsi nel nostro spazio di vita e depauperarlo. Troppo forte è il bisogno di un capro espiatorio la cui eliminazione funge da risoluzione definitiva, e troppo forte il desiderio di un salvatore il cui arrivo sulla scena porterà benessere e sicurezza. E troppo debole è la realtà al paragone con la fantasia. Perché il razzista e il populista  non si nutrono di realtà (ad esempio con l’effettiva presenza dei migranti in Italia) ma di fantasie (la sua percezione patologica di essere invaso dai migranti). E soprattutto di fantasie persecutoria. Per questo motivo al razzista non basta neppure sbarazzarsi del suo persecutore cancellandolo dalla faccia della terra. Al contrario, più se ne sbarazza più la sua immagine diventa terrorizzante e insostenibile, come, ade esempio era il caso del nazismo, che più si impegnava nello sterminio degli ebrei, più l’Ebreo nel suo immaginario diventava minaccioso e pericoloso. Al punto che alla fine la fantasia prenderà il sopravvento su tutto e divorerà tutto il resto.

Per questo, nel rispondere al populismo razzista, non vale il richiamo alla ragione. E non solo perché il razzista si muove solo nell’ambito della sua fantasia patologica, ma perché la sua mira ultima è proprio la ragione come esercizio di un dubbio critico, di una costruzione delle ideologie, capace di mettere in luce le nostre più intime debolezze, la nostra anfibia contraddittorietà umana.

Per questo, nel rispondere al populismo razzista, non vale neppure il richiamo alla vita democratica e allo stato di diritto, Perché il razzismo ha come mira ultima proprio l’attacco e l’epurazione, la cancellazione della democrazia come quell’esercizio di potere nel quale l’escluso, il senza patria e nome può prendere parola e pretendere di parlare a nome di tutti.

Per tutti questi motivi non ha alcun senso criticare e stigmatizzare il razzismo, occorre invece decostruire l’intero lessico della cultura europea. Ma non per eliminarlo, bensì per approfondirlo e proteggerlo e, se possibile, inverarlo. Ben coscienti del fatto che se non dovessimo riuscire nell’impresa, il nostro razzolante razzismo ne farà il suo più acerrimo nemico e nuovi pogrom saranno all’orizzonte.

FOTO DI COPERTINA Protesters March Over Death Of Freddie Gray BALTIMORE, MD - APRIL 22: Demonstrators put their fists in the air as a sign of 'black power' during a protest against police brutality and the death of Freddie Gray outside the Baltimore Police Western District station in the Sandtown neighborhood April 22, 2015 in Baltimore, Maryland. Gray, 25, was arrested for possessing a switch blade knife April 12 outside the Gilmor Homes housing project on Baltimore's west side. According to his attorney, Gray died a week later in the hospital from a severe spinal cord injury he received while in police custody. (Photo by Chip Somodevilla/Getty Images)