Alla Berlinale il primo film della giornata è quasi sempre alle 9 di mattina. “Quasi sempre” perché a volte, per le pellicole più lunghe, si parte alle 8 e 30. Ti svegli, ti lavi la faccia, poi i denti. Metti sul fuoco l’acqua, in una pentola che arriva dalla DDR e attorno a cui decine di fiori colorati si attorcigliano circolarmente: purtroppo il bollitore, questo strumento sconosciuto a sud di Zurigo, si è ormai perduto, definitivamente, nell’oblio degli elettrodomestici marca OK comprati da Media Markt e abbandonati nel cortile del palazzo. Ti vesti, bevi il tè verde che renderà la tua mattiniera visione un’orribile sofferenza contenitiva, metti le scarpe e via, in bicicletta verso il quartier generale del festival, una Potsdamer Platz intorno a cui, fra i grattacieli che si mischiano al nebbiume grigio, si muovono, zombeschi, decine di individui con un laccio intorno al collo: i giornalisti.
Gully Boy – di Zoya Akhtar – Berlinale Special
Murad ha 22 anni e vive a Dharavi, una baraccopoli di Mumbai. Studia all’università, grazie agli sforzi della sua famiglia, nella speranza di potersi costruire un futuro migliore. Il piccolo mondo di Murad si divide fra i litigi con il padre, il tempo con gli amici di una vita e l’amore per la sua fidanzata segreta, Safeena, di una categoria sociale molto superiore alla sua e con la quale sta insieme dall’adolescenza. Poi tutto cambia. Murad conosce, per caso, un noto rapper, i due si frequentano sempre più spesso e pian piano la sua passione per l’hip hop diventa un’ossessione destinata a lasciare una traccia indelebile nella sua esistenza.
Gully Boy non resta impresso per la fotografia elegante, per la recitazione alta, per i movimenti di camera. Tecnicamente, narrativamente, cinematograficamente, è un film normale, che attracca con facilità nel porto sicuro di ciò che resta intorno alla sufficienza. Eppure c’è qualcosa che lo rende più importante, più interessante, dei film della sua categoria. Non è soltanto una storiella generazionale di ritmo e abiti alla moda, non si ferma alla critica sociale portata sullo schermo secondo le contrapposizioni semplici già visitate da Slumdog Millionaire in avanti quando si parla d’India al cinema. Qui c’è una bella ricerca sul mondo della musica rap, che non è soltanto un accompagnamento furbo al film, ma ha un ruolo centrale, sia nell’andamento narrativo che nelle informazioni culturali che ne derivano. C’è un movimento hip hop in India ed è un movimento nel quale si cristallizzano le distanze sociali di un paese stretto nella morsa delle divisioni di classe, che un genere musicale come l’hip hop, e questo film, raccontano in maniera semplice, ma sincera.
Grâce à Dieu– di François Ozon – Competizione
Alexandre vive con la moglie e i suoi figli a Lione. Quando scopre, per caso, che il prete che lo ha molestato da giovane è ancora in servizio, e come se non bastasse a stretto contatto con i bambini, decide di agire, a oltre trent’anni di distanza, e di denunciarlo. La storia pian piano si allarga, si scoprono decine di vittime, fra loro anche François ed Emmanuel, di cui vediamo raccontati gli sforzi e le sofferenze inevitabili nel tentativo di combattere con le ombre del proprio passato.
Tratto da una storia vera, il film di Ozon è una ricostruzione che non si distingue né per ritmo, né per tecnica, né per inventiva. La narrazione procede netta, piena, inesorabile, con un’aderenza assoluta alla vicissitudini di cronaca e uno stile asciutto che è reso ancora più documentale dall’utilizzo, a volta quasi esagerato, della voce fuori campo. Il risultato non è certo quello di un film che si guarda tutto d’un fiato, eppure si ha la sensazione che Ozon abbia realizzato una pellicola necessaria, anche se esteticamente mediocre, per lasciare traccia indelebile di uno dei casi di pedofilia nella Chiesa più gravi mai documentati in Europa.
Öndög – di Wang Quan’an – Competizione
Una donna nuda viene trovata uccisa nella steppa mongola. A sorvegliarla, in attesa che arrivi il medico legale dalla città più vicina, viene lasciato un poliziotto giovane e inesperto. A proteggerlo dai pericoli di una notte nel deserto mongolo, con i lupi affamati in cerca di prede, c’è una tenace donna pastore, armata di ironia e di un fucile.
Öndög si inscrive perfettamente nella tradizione stereotipata di chi immagina il cinema asiatico come un insieme molto poetico e rallentato di immagini bellissime, ma che danno vita a film non facili da digerire. Il ritmo qui è immobile, a lungo ci si perde su lunghe inquadrature della selvaggia steppa mongola, movimenti di camera insistiti, spesso raffinati, che hanno la capacità di rendere tangibile la solitudine dei luoghi e delle genti ritratte, ma che, contemporaneamente, non riescono a elevarsi oltre il limite dell’estetica pura. Öndög scorre via anche meglio di quanto ci si potrebbe immaginare, ma non colpisce, e resta a metà fra il film di riflessione e l’esercizio d’autore.
Der Boden unter den Füßen – di Marie Kreutzer – Competizione
Lola ha quasi trent’anni. Consulente manageriale di successo, è costantemente in movimento tra la società di cui le è stata affidata la ristrutturazione, a Rostock, nel nord della Germania, e il suo elegante appartamento di Vienna. Cene costose con i clienti, stremanti sessioni di palestra, un centinaio di ore lavorative a settimana, la mostrano, verso l’esterno, come una donna inarrestabile, la cui carriera sta per decollare definitivamente. Il suo approccio alla vita è rigido e disciplinato. Nulla può mettersi in mezzo fra Lola e il successo, nemmeno la sorella maggiore, che è affetta da gravi problemi di schizofrenia ed è rinchiusa in un ospedale di Vienna dopo l’ennesimo tentativo di suicidio.
Marie Kreutzer ha realizzato uno dei film più belli e interessanti fra quelli sinora visti in Competizione alla Berlinale 2019. Il suo è un ritratto amaro e potente della sottile linea che spesso separa gli opposti, in questo caso l’ordine di Lola e il caos di Conny, ma è anche un racconto in presa diretta dell’effimerità del successo nel mondo del lavoro contemporaneo, doveva ascesa e caduta possono alternarsi in brevissimi stacchi di tempo. Supportato dalla straordinaria recitazione di Valerie Pachner, che riesce a trasportare sullo schermo ogni singolo centimetro delle sensazioni emotive veicolate dalla storia (amore, paura, dolore, solitudine, felicità) Der Boden unter den Füßen accompagna lo spettatore dentro un viaggio intimo e profondo.
The Miracle of the Sargasso Sea – di Syllas Tzoumerkas – Panorama
Elisabeth è il capo della polizia nella città costiera di Missolungi, sud-ovest della Grecia. La sua è un’esistenza arrabbiata, passata fra continue sbornie, il sesso con un medico sposato, i rapporti pessimi con i colleghi e un figlio che la capisce ben oltre quello che ci si aspetterebbe da un adolescente. E’ stata trasferita nella piccola cittadina meridionale dieci anni prima, da Atene, proprio quando tutto faceva immaginare una grande carriera nella capitale. Accanto a lei, nella stessa città, sconosciuta ma ugualmente fragile, si muove Rita, operaia in una fabbrica di lavorazione del pesce, una madre colpita da sindrome d’Alzheimer e un fratello cantante nel più celebre night club del centro. Le loro vite si incroceranno.
To thávma tis thálassas ton Sargassón (questo il titolo originale del film) è un lavoro bizzarro, i cui grotteschi simbolismi fanno spesso pensare al senso ambiguo del cinema di David Lynch. Il dramma è costruito in maniera scomposta, con blocchi narrativi che s’intrecciano in maniera contorta, personaggi portati sullo schermo attraverso una recitazione che spesso appare volontariamente forzata. La prova di Angeliki Papoulia, in ogni caso, è titanica.
Der Goldene Handschuh – di Fatih Akin – Competizione
St. Pauli, Amburgo, anni ’70. Nel quartiere a luci rosse della città, è la notte a farla da padrona. Ubriaconi, prostitute, tossicodipendenti ed una sterminata varietà di anime solitarie popolano i peggiori bar della zona fino a mattina inoltrata. Fritz Honka, un uomo dalla faccia sporca e un po’ sgorbia, gli occhi nascosti da una spessa montatura di corno, il passo trascinato e gobbo, è una di queste. Nelle sue nottate passate al bar più sporco e fumoso del circondario, lo “Zum Goldenen Handschuh” (il guanto dorato) Honka abborda donne anziane e sole, ubriacandole di liquori a poco prezzo. Le porta a casa, ci fa l’amore, poi le uccide, le fa a pezzi e le nasconde dentro uno scompartimento a muro nella soffitta del suo appartamento.
A partire dal vero caso del serial killer Fritz Honka e sulla base del romanzo poliziesco di Heinz Strunk, pubblicato nel 2016, Fatih Akin porta in scena un ritratto minuzioso di una vita violenta e depravata, in cui sono la misoginia e una sessualità malata a prendersi la scena. Eppure il film non convince. Tutto scorre in maniera rigida, senza accenti. Non c’è mai spazio per riflettere su quello che passa sullo schermo, non c’è un approfondimento ragionato dei fatti, solo una volontà, encomiabile ma fine a se stessa, di ripercorrere, in maniera manicalmente fedele, le gesta di Honka. E’ un peccato, perché da Akin ci si aspettava di più e perché una pellicola come questa avrebbe dato la possibilità, con una sceneggiatura più coraggiosa, di analizzare in maniera più contingente le complessità della società tedesca negli anni ’70.
Vice – di Adam McKay – Competizione (Fuori Competizione)
Dick Cheney è stato il più potente vicepresidente nella storia degli Stati Uniti. Le sue decisioni, complice anche l’incapacità politica di George W. Bush (del quale è stato, appunto, il secondo per otto lunghi anni) hanno avuto un’influenza devastante sugli avvenimenti storici di tutto il mondo. Su tutto, le guerre in Afghanistan e Iraq post 11 Settembre, che hanno modificato per sempre lo scenario geopolitico del mondo arabo e aperto una stagione, ancora irrisolta, di terrorismo e instabilità la cui onda lunga, tramite l’ISIS e i rifugiati siriani, ha avuto contraccolpi pesantissimi anche in Europa.
Adam McKay sceglie la via dell’umorismo sottinteso, affidandosi alla recitazione di un Christian Bale a suo agio nell’ennesima trasformazione fisica della sua carriera. Vice alterna satira e giornalismo, ricostruzioni e cinema americano classico, in un’alternanza di ritmi e registri che, alla fine di tutto, non riesce a centrare davvero il bersaglio. Bale, Amy Adams, Sam Rockwell, Steve Carrell, sono all’altezza e trascinano senza fratture i 132 minuti di pellicola. Eppure manca il guizzo, qualcosa che riesca a rendere unico un film che rischia di scivolare rapidamente nel dimenticatoio.
A Tale of Three Sisters – di Emin Alper – Competizione
Le tre sorelle Reyhan (20), Nurhan (16) e Havva (13) vivono con il padre in un remoto villaggio di montagna dell’Anatolia centrale. Tutte e tre hanno lavorato per diverso tempo come domestiche nella città, ma oggi, per diversi motivi, sono rientrate alla casa di famiglia.
Il film di Alper è esteticamente straordinario, eppure fatica a trovare una direzione narrativa precisa. Per quanto piacevole da guardare, non racconta niente di importante e non è ancorato in alcun modo al contesto sociopolitico della Turchia contemporanea. In A Tale of Three Sisters si susseguono gli aneddoti, i simbolismi religiosi, i monologhi raccontati attraverso lunghissimi primi piani che hanno il merito di farci entrare in maniera intima dentro ognuno dei personaggi. Il dramma e l’ironia si combinano in un lavoro a cui sarebbe bastato un po’ più di profondità per aumentare, di molto, il suo profilo.
La paranza dei bambini – di Claudio Giovannesi – Competizione
Sei ragazzini gironzolano in scooter fra le stradine del quartiere Sanità, a Napoli. Nicola, il capo quindicenne, li organizza in una banda che prova a conquistare il potere criminale dopo l’arresto del boss della zona. Ingenui e temerari, i ragazzi indossano vestiti alla moda, sparano dai tetti dei palazzi, vendono droga di fronte all’università e prendono il controllo del quartiere con una leadership illuminata che abolisce il pagamento del pizzo da parte dei commercianti locali.
Tratto dal terzo romanzo di Roberto Saviano, questo film, interpretato da ragazzi non professionisti pescati proprio del quartiere Sanità, racconta il mondo senza futuro degli adolescenti poveri della più grande e complessa città del sud italiano. Non lo fa in maniera urlata, non c’è l’ultraviolenza che ci si aspetterebbe da un lavoro che in molti hanno atteso come una sorta di capitolo secondo di Gomorra. La paranza dei bambini lavora per sottrazione, limitando al minimo le spettacolorarizzazioni e normalizzando, ai limiti dell’ordinario, anche le scene più pesanti. Le brutalità sono sempre fuori campo, immaginata, accennata, mai completamente esplosa. La scena d’apertura del film, una battaglia fra baby gang per la conquista dell’albero di Natale piazzato dall’amministrazione locale in una galleria del centro, è il manifesto stilistico di un lavoro che ci tiene a mostrarsi profondamente diverso dalla narrativa dei “criminali affascinanti” cui ci ha abituato la serie di Gomorra.
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