Con qualche anno di ritardo, mi sono imbattuta nella figura di Siyanda Mohutsiwa, una giovane blogger e scrittrice del Botswana. Vorrei precisare che non sono un’esperta, e nemmeno lontanamente una conoscitrice, della complessa realtà storica e culturale dell’Africa, e che mi sono imbattuta in lei seguendo quel modo bulimico e trasversale tipico di Internet, per il quale, a partire da una curiosità, si finisce di link in link ad arrivare a tutt’altra meta di quella che ci si era prefissi.
Ad ogni modo.
Siyanda Mohutsiwa è diventata nota nel 2015 postando un tweet che, come vedremo in seguito, ha generato un hashtag divenuto virale in tutta l’Africa e non solo. L’eco di questo tweet ha infatti raggiunto molte testate internazionali eppure non se ne è mai parlato in nessun giornale, trafiletto o rivista italiana.
Mi sembrava dunque interessante ripercorrere alcune tappe di questa vicenda, sia perché offre punti di vista interessanti sul modo in cui una piattaforma digitale può essere utilizzata, sia perché Siyanda Mohutsiwa – con i suoi soli 25 anni – è una mente brillante, sia perché, e soprattutto, nel nostro immaginario dell’Africa prevale spesso l’idea di un paese problematico e lontano, con l’emergenza dei rifugiati e della fame da un lato, o dei safari con gli animali esotici dall’altro, quando vi si guarda con interesse turistico.
L’attuale diversità del continente e le speranze politiche della gioventù africana, sono invece appena visibili. E forse non sono la sola a saperne ben poco…
Come Siyanda Mohutsiwa stessa avrà a spiegare durante una conferenza TED ad Amsterdam, tutto è nato con una domanda sul Sud Africa, e a seguito delle continue allusioni di questo paese alla necessità di costruire un’era “post-razziale” dopo i devastanti decenni dell’Apartheid.
In realtà, è bene dirlo subito, Siyanda non proviene dal Sud Africa.
Suo padre è originario del Botswana, un Paese dell’Africa del Sud, democratico e con politiche sociali molto progressiste, e sua madre, invece, è del Regno dello Swaziland, una nazione molto piccola, sempre dell’Africa meridionale, ultima monarchia assoluta rimasta nel continente.
Nata e cresciuta in quest’ultima, come bambina che parlava fluentemente la lingua Swati “e basta”, Siyanda approda in Botswana in età scolare, inserita in una nuova casa e in un’identità culturale che non comprende affatto, incapace anche di capire la lingua che la circonda. Per di più, fa il suo ingresso nel sistema scolastico privato africano, il cui unico scopo, dice, era “quello di toglierti via la tua africanità”.
In questo limbo, dove, sue parole, “appartenevo a due posti contemporaneamente ma non mi sentivo parte integrante di nessuno dei due, e allo stesso tempo mi sentivo parte di tutto ciò che c’era intorno”, Siyanda si forma, studia la letteratura, la politica, la filosofia africana, e nella costruzione della sua identità, comincia a essere ossessionata dall’idea di una cultura africana condivisa. Il mezzo che le permette di approfondire davvero questa sua ossessione arriva nel 2011, ed è Twitter.
Con una connessione che comincia a farsi più accessibile ed economica per tutti, e con una piattaforma che permette – pur nel limite di 140 caratteri – di esprimere la creatività senza confini e restrizioni, Siyanda si affaccia al mondo, scoprendo persone del Sudafrica, del Ghana, della Nigeria, in un continente immenso e diversificato in cui pure non tutti, ma tanti ragazzi come lei, si chiedono cosa significhi essere un giovane africano oggi.
“Mi sono resa conto di cosa stava accadendo. Mi sono resa conto di essere in mezzo a qualcosa di straordinario, perché, per la prima volta, i giovani africani potevano parlare del futuro del continente in diretta, senza restrizioni dovute ai confini, alla finanza, ai governi”.
È in una giornata estiva del 2015, che Siyanda posta dunque questo tweet:
If Africa was a bar, what would your country be drinking/doing?
— Siyanda Mohutsiwa (@SiyandaWrites) July 27, 2015
Ne fa seguito rapidamente un altro, con cui Siyanda sposta subito l’attenzione sul problema delle divisioni razziali in Sud Africa.
#ifafricawasabar South Africa would be drinking all kinds of alcohol and begging them to get along in its stomach…
— Siyanda Mohutsiwa (@SiyandaWrites) 27 luglio 2015
Poi, si mette ad aspettare.
Ma non aspetta molto, perché nell’arco di poche ore la rete reagisce e in breve tempo l’hashtag #IfAfricaWasABar diventa virale, raccogliendo oltre 60.000 tweet che infiammano il continente. Ma la cosa sorprendente è il modo con cui – a partire da stati tanto diversi – le persone interpretano e “declinano” quell’hashtag, servendosene per scopi molto diversificati:
C’è chi, ad esempio, vuole riflettere sui cambiamenti e sulla prosperità del Ruanda nell’epoca del post genocidio:
#ifAfricawasabar Rwanda would be that girl that comes with no money and no transport but leaves drunk, happy and rich
— • (@soafricane) 27 luglio 2015
C’è chi lo usa per criticare la spesa pubblica e l’abitudine a prendere prestiti del Sud Africa (che secondo un rapporto pubblicato dalla Banca Mondiale ha quote di prestito tra le più alte del mondo, ndr)
#ifafricawasabar South Africa would be ordering bottles it can’t pronounce running a tab it won’t be able to pay
— Masha. (@NaturallyMasha) 27 luglio 2015
Ancora, chi se ne serve per ricordare che ci sono nazioni di cui gli stessi africani ignorano l’esistenza…
#IfAfricaWasABar Lesotho would be that person who nobody really knows but is always in the pictures.
— A.O (@PILLAY_CGLM) 27 luglio 2015
…e anche nazioni che invece che non si considerano parte dell’Africa:
#IfAfricaWasABar Egypt, Libya, Morrocco & Tunisia would be those girls that complain that they don’t like it here, they club up the road
— Property of Spitkicker.com (@BanNgidi) 27 luglio 2015
Qualcuno ironizza invece sulla ricchezza nuova – e precaria – di alcuni paesi:
C’è poi chi non manca di fare allusioni al colonialismo…
#IfAfricaWasABar Europeans would spike all the drinks then sell antidotes to everyone at a later date
— Manji Cheto (@ChetoManji) 27 luglio 2015
… o alla realpolitik:
#IfAfricaWasABar China would be its main alcoholic distributor.
— Little Hansel (@little_hansel) 27 luglio 2015
Questi sono solo alcuni degli innumerevoli tweet che l’hashtag #IfAfricaWasABar ha generato. Molti di questi rimangono intellegibili senza avere una chiara visione delle vicende politiche e culturali che investono i paesi africani e come ha detto un utente, il bello è anche questo. Inoltre, come tiene più volte a sottolineare Siyanda, a causa anche dell’arcaico sistema educativo dell’Africa coloniale, che viene portato avanti, inalterato, dagli anni ’20, anche “la maggior parte degli africani conosce la realtà del proprio continente molto meno di quanto non la conoscano gli occidentali”.
Ma il fenomeno #IfAfricaWasABar è ancora più interessante proprio perché ha permesso alle persone di unirsi “grazie al loro essere africane”, promuovendo, come sostiene Siyanda, l’idea di un “panafricanismo sociale” che non si affida “a un élite politica” ma alla forza della voce “dell’africano qualunque”.
Funzionando come un barometro geopolitico, l’hashtag ha dimostrato come tanti giovani abbiano colto l’opportunità di poter parlare dell’Africa utilizzando i social media, in uno “spazio sicuro ma non sottovalutato dai media internazionali”.
E su questo fa perno anche il sogno di Siyanda Mohutsiwa: “vorrei che i giovani africani si rendessero conto che l’intero continente è la nostra tela, la nostra casa. Grazie a internet, possiamo iniziare a pensare in maniera collaborativa […], abbiamo la possibilità di sostenerci a vicenda, perché, che ci piaccia o no, il destino del popolo africano è profondamente collegato. In caso di disastri, in caso di subbugli, ne condividiamo tutti le conseguenze. […] Quando la gente del Burundi scappa per le agitazioni politiche, si rifugia negli altri stati africani e quello che era un problema del Burundi, diventa un problema di tutta l’Africa. Non esistono problemi del Sudan o problemi del Sudafrica, o problemi del Kenya, ma solo problemi dell’Africa perché, alla fine, sono problemi condivisi”.
Anche l’Europa, verrebbe da pensare, si trova oggi a condividere molti problemi, non da ultimo quelli dei rifugiati. E benché il concetto stesso di Europa Unita sia costantemente messo alla prova e, nonostante la mobilità “liquida” soprattutto delle nuove generazioni, in molti sembrino sentirsi più fuori che dentro, verrebbe da chiedersi se esiste invece una voce da esplorare anche in questo continente, e quale sarebbe la risposta se qualcuno, un giorno, postasse un hashtag #IfEuropaWasABar…
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