Una litania tra il canto e la preghiera si alza inaspettata nell’aria. Difficile capirne la provenienza in quel geometrico teatro urbano, costellato da case tutte identiche di mattoni rossi, sparute aree verdi e il lungo ponte in cemento della ferrovia di superficie. Eppure quelle voci sembrano vicine, come se fossero i mattoni sbiaditi ad emetterle.
A sinistra mi si aprono dinnanzi, come enormi bocche voraci, i magazzini ricavati nelle arcate sotto la struttura del ponte. Una porta socchiusa, minuscole scarpe allineate all’uscita. Lembi di bianche e nere vesti adagiate sul pavimento, che si muovono ritmicamente al suono del canto e della preghiera. Tra un deposito di generi alimentari e un negozio di frutta, si nasconde, insospettabile, una moschea, quasi fagocitata dal cemento e dai mattoni della struttura sovrastante. Siamo a Stocks Place, nello storico quartiere di Limehouse nell’est di Londra, vicino all’antica area portuale della capitale inglese.
Il passaggio del treno della Ferrovia Leggera, la Docklands Light Railway, attutisce il canto dei bambini in preghiera, quasi a non volere imporre il suo efficientismo produttivo su quelle tenere voci, che stasera racconteranno la loro giornata ai genitori, tra le mura scrostate di una spartana casa popolare, le cosiddette council houses, spesso composte di sole due stanze.
Canary Wharf: un lussuoso esperimento sociale
Enormi grattacieli in vetro, lucidi e patinati, si stagliano nel cielo, a pochi passi dal ponte. Beffardi, eppure discreti, sembrano sussurrare il loro lusso, il loro potere, senza apparentemente interferire con chi abita al limite della povertà, nei numerosi appartamenti popolari appena sotto.
Sono i 45 grattacieli di Canary Wharf, capitale della finanza del Regno Unito e quartier generale europeo dei più grandi istituti bancari mondiali, tra cui la Barclays, la Credit Suisse e la HSBC.
Costruita nel 1988 sulle gloriose fondamenta del Porto di Londra (che fu il cuore del potente e perfido impero commerciale britannico nel diciottesimo e diciannovesimo secolo e rimase in auge fino agli anni settanta del 1900), Canary Wharf, vista dall’alto, sembra un’oasi di vetro e denaro, incastonata su una distesa di anonimi blocchi grigi di cemento e mattoni tra cui spiccano, come rose in un campo di gramigna, le nuove e scintillanti costruzioni dei moderni complessi abitativi sorti negli ultimi anni.
Il progetto di riqualificazione fu commissionato dal Governo Thatcher nel 1987, con la London Docklands Development Corporation, per arginare le estreme condizioni di degrado e povertà in cui versava l’area a seguito della chiusura del porto nel 1980 (poi rinominato ‘Docklands’ nel 1971 n.d.r.) e delle attività commerciali ad esso connesse. Nonostante alcuni incidenti di percorso, compresa la bancarotta finanziaria dei suoi iniziali fondatori, che aveva fatto temere il peggio, Canary Wharf rappresenta oggi uno dei più audaci e riusciti esempi di monadica rigenerazione urbana, un’anomala gentrificazione di un quartiere che continua ad essere, come in un eterno ricorso storico, una delle aree più povere della città.
Dagli ultimi censimenti ufficiali sulla povertà nel quartiere (i.e. la municipalità di Tower Hamlets) del 2012 e del 2015, emerge infatti che il 44% della popolazione locale vive in condizioni di degrado e ben il 40% abita nelle council houses, contro il 24% dell’intera città di Londra. Anche il tasso di disoccupazione è uno dei più elevati della città (il 12%) con evidenti oscillazioni tra i diversi gruppi etnici che vivono nell’area. Il picco del 27% riguarda la popolazione di origine bengalese, storicamente in netta prevalenza nel quartiere, mentre sul gradino più basso, con il 7% dei disoccupati, ci sono gli autoctoni inglese (i ‘bianchi, britannici’ come qui si definiscono a fini statistici). Oggi Tower Hamlets è uno dei luoghi con la più alta disuguaglianza economica e sociale di tutto il Regno Unito.
Eppure, Canary Wharf, a distanza di circa 30 anni dalla sua costruzione, dà oggi lavoro a ben 120.000 persone, tante quante ne venivano impiegate nelle proficue attività portuali. Di queste, pero’, solo meno dell’1% proviene dal quartiere di Tower Hamlets e quando capita, si tratta, in gran parte, di “new-comers”, londinesi di aree benestanti o top-managers inglesi e stranieri che hanno acquistato i nuovi appartamenti dai prezzi inarrivabili sorti negli splendidi ex magazzini portuali, oggi restaurati con le più sofisticate tecniche di costruzione e design.
“Non riesco ancora a credere a come tutto sia cambiato negli ultimi 30 anni’ dice Mark R., ex docente in pensione che ha trascorso l’infanzia e l’adolescenza qui nelle Docklands. “Ricordo che a 10 anni il mio divertimento più grande era andare a giocare al porto di West India Quay con mio fratello, e cercare di entrare nelle navi attraccate eludendo la sorveglianza di chi ci lavorava. Il ferro, le gru, le lamiere, le navi, i magazzini merci, sono immagini ricorrenti della mia infanzia. Poi, pian piano, il porto ha chiuso i battenti e mi sono trasferito con mia moglie a West London. Ma quando tornavo a trovare i miei genitori, vedevo che le condizioni del mio quartiere andavano sempre peggiorando: ai negozi che chiudevano a vista d’occhio si sostituivano scippi e furti continui, sullo sfondo di una sempre più straziante povertà. Poi mio padre mi chiamò contento il giorno in cui la Docklands Corporation pose la prima pietra del cantiere di Canary Wharf, dicendo che ‘la guerra era finita”. Ma non era così, anche se non gliel’ho mai potuto più raccontare. La povertà c’è ancora, tutto attorno, e la gente locale guarda a Canary Wharf come il castello impenetrabile del gigante cattivo nelle favole”.
Banglatown: L’Est di Londra come la succursale del Bangladesh.
Anche Mohammed, 70 anni, emigrato dal Bangladesh nel 1971 qui a Tower Hamlets, nell’area di Limehouse, racconta come era diverso il quartiere prima della nascita dell’isola della finanza, mentre si china a fatica per rimettersi i sandali sgualciti all’uscita della Moschea in cui ha tenuto la sua lezione sul Corano del Sabato per i bambini della zona.
“Sembrava di essere a casa. Qui erano venuti prima di noi i miei zii del Silhet (regione nord occidentale del Bangladesh n.d.r.), alcuni amici di famiglia e persino il mio professore di scuola media. Mio zio aveva aperto un ristorante tipico nella zona, dove andai a lavorare, ma non si facevano grandi affari inizialmente. Avevamo bisogno di aiuti finanziari e il Governo inglese ci venne incontro. Ma quando mi mettevo in fila nell’ufficio comunale per ritirare il mio sussidio settimanale, davanti a me c’erano molte teste bionde, pallidi uomini e donne londinesi, dagli occhi spenti e dai cappotti rovinati. Credevo di essere venuto in El Dorado ma non avevo fatto i conti con la povertà, con la criminalità e, purtroppo, con l’iniziale razzismo dei pochi disperati della zona. Poi le cose cominciarono a cambiare. La povertà è rimasta, ma si è attutita. E’nata la capitale della finanza, che seppur vicina mi sembra inarrivabile. Non vado mai a Canary Wharf. D’altronde non potrei permettermi nemmeno di prendere un caffé in quella miniera d’oro!”.
Mohammed ha gli occhi dolci e la barba lunga. Mi invita ad accompagnarlo nella sua breve passeggiata verso casa, che si trova a Three Colt Street, storica via del quartiere delle Docklands, un tempo sede di vivaci attività commerciali durante l’epopea d’oro del Porto di Londra. Come il 43% della comunità bengalese, Mohammed vive in una casa popolare di appena tre stanze, insieme alla moglie, la figlia, il genero e i suoi tre nipoti.
Dei 170.500 bengalesi attualmente residenti nella capitale britannica – circa la metà del totale della popolazione bengalese, ormai giunta alla terza generazione, nel Regno Unito – ben il 33% vive nel quartiere di Tower Hamlets. Emigrati in massa nel corso degli anni ’70 a causa delle estreme condizioni di povertà che il Bangladesh dovette affrontare per il declino dei traffici commerciali con l’Inghilterra e i sanguinosi conflitti con il Pakistan (da cui il Bangladesh dichiarò l’autonomia nel 1971), i bengalesi crearono in questa parte di Londra una vera e propria ‘succursale’ del Silhet, la regione asiatica da cui proviene il 90% degli immigrati, dedicandosi principalmente alle attività di ristorazione e alla produzione e vendita di tessuti.
Sebbene le attuali generazioni sembrino oggi scegliere, molto più che i loro genitori, forme più elevate di istruzione come possibilità concreta di riscatto sociale, la comunità bengalese a Tower Hamlets è storicamente non solo la categoria etnica più numerosa (circa un terzo della popolazione totale) ma anche la più indigente e disagiata, con il tasso di disoccupazione più elevato del quartiere e condizioni abitative al limite. Secondo il censimento dell’ONS (Ufficio Nazionale delle Statistiche) del 2016, infatti, il 43% dei bengalesi a Tower Hamlets abita in case popolari anguste e sovraffollate, con in media due stanze e 4.5 occupanti, che sono spesso parte di famiglie allargate.
Arrivati a Three Colt Street, Mohammed mi guarda e indica con un sorriso di gioia, denso di amore e ricordi, il blocco di case in mattoni rosso scuri, dall’aspetto quasi militaresco, in cui si trova il suo appartamento al secondo piano. Nell’aria insolitamente tersa di un sabato pomeriggio primaverile, si solleva, intenso e pungente, l’odore del curry e delle spezie, che le signore del quartiere stanno preparando per cena. Gruppi di donne velate procedono sommessamente verso i loro appartamenti, trascinando le buste della spesa, con al seguito tre o quattro bambini dai vestiti modesti, le scarpe consunte. Appoggiato a una parete, all’angolo della strada, un vecchio materasso sfondato, insieme ad altri mobili fatiscenti, ormai inutilizzabili.
Nonostante tutto, anche questa povertà sembra discreta, mai esasperata, come se accettasse il suo destino, ma non lo stigma di inferiorità che il giudizio sociale vorrebbe darle: i casermoni di cemento e mattoni, come la casa di Mohammed, guardano con orgoglio le sovrane Torri lussuose di Canary Wharf di fronte a loro, e si adagiano con grazia accanto alle nuove costruzioni private di alto design e architettura d’avanguardia, consapevoli di non essere principesse, ma decorose nel loro aspetto sgradevole.
La povertà, che pur trasuda dalle pareti di questi complessi popolari, non diventa mai abbandono, sporcizia, mancanza di rispetto di sé. Le strade sono ben mantenute e pulite, così come i gradevoli fazzoletti di prato adiacenti agli edifici, spesso rallegrati da giostre e giochi variopinti per i bambini. Persino i vecchi giocattoli abbandonati davanti ai cassonetti, (perché sarebbe impensabile chiamare il servizio di raccolta ingombrante a pagamento), sono disposti con cura.
Il Social Housing e le politiche abitative del Welfare britannico
Il Social Housing è stata una priorità del governo inglese sin dal 1890, quando fu pubblicato l’”Atto per la ricollocazione abitativa della classe lavorativa”, finalizzato a finanziare la costruzioni di abitazioni nelle periferie-ghetto, i cosiddetti ‘slums’, in cui la classe operaia era costretta a vivere in condizioni malsane e igienicamente insostenibili.
Dopo la prima guerra mondiale, con l’Addison Act, lo Stato autorizzò i comuni alla costruzione di unità abitative per i reduci di guerra e gli sfollati dai bombardamenti, ma fu solo nel 1930, con l’Atto di Greenwood, che si procedette alla evacuazione delle periferie-ghetto e alla ricollocazione della working class in abitazioni decorose, fornite dalle istituzioni.
Il vero boom abitativo delle case popolari nel Regno Unito avvenne però tra il 1950 e il 1960: si calcola che in questo decennio il governo abbiamo fornito un alloggio a 45 famiglie a settimana, per un totale di 300.000 case all’anno. Si trattava di complessi di palazzine in mattoni e cemento armato di massimo sei piani (gli ‘estates’), con un’area verde dedicata e i servizi centralizzati, che accolsero le categorie più disagiate della popolazione britannica.
Purtroppo, a causa del sovrannumero di richiedenti dimora con reddito sotto la soglia della poverta, l’Housing Subsidy Act del 1951 impose di finanziare con importi maggiori i costruttori di case superiori ai sei piani, una tendenza che sfociò, nel corso degli anni ‘60 e ’70, nella realizzazione massiccia dei cosiddetti Tower Blocks o Streets in the Sky (Torri o Strade nel Cielo) giganteschi e mastodontici casermoni in cemento armato prerinforzato, i cui materiali, in alcuni casi si sono tragicamente rivelati scadenti, anche a distanza di decenni: è il caso della Grenfell Tower, il grattacielo di 24 piani, situato nel quartiere di North Kensington, il cui incendio, nel giugno del 2017, ha provocato la morte di 72 persone.
E’ degli anni 80, durante il Governo Thatcher, il decreto che ha consentito ai beneficiari delle case popolari di acquistarle a prezzi agevolati, fornendo loro una possibilità di un riscatto sociale negli anni. Mohammed è enormemente grato allo stato inglese per il prezioso regalo della ‘dignita nella poverta’, che gli ha consentito di vivere serenamente e costruire la propria storia qui a Londra, seppur consapevole dei confini invalicabili di altre realtà, a lui cosi vicine, ma inaccessibili. Mi saluta con il suo serafico sorriso, mentre il nipotino, nella sua lunga tunica bianca, lo trascina a giocare con sé.
Le campane rintoccano festose nell’aria per dieci volte: sono le otto di sera e tra poco si celebrerà la messa nella vicina chiesa anglicana di St. Anne’s di Limehouse, uno dei pochi straordinari esempi di architettura tardo barocca britannica, costruita ad opera di Nicholas Hawksmoor nel 1717.
Splendida e aggraziata, la St. Anne’s Church troneggia sul lato nord della strada, un faro per chi si immette in questo angolo multiforme di storia e cultura della città.
Le chiome degli alberi secolari del parco antistante la chiesa, che è anche un antico cimitero, si muovono ritmicamente al suono delle campane ogni volta che il vento della sera le accarezza, e quel fruscio, pian piano, sembra trasformarsi in un coro di voci. Sembrano quelle, argentine, dei bambini della moschea. Mi chiedo se qualcuno di loro, tra qualche anno, deciderà di emanciparsi e prendere il treno verso Canary Wharf per valicare per sempre quei confini invisibili, fatti di vetro e segregazione, che pure, ancora sembrano insormontabili qui nel quartiere di Tower Hamlets.
Serena Ansaldi è siciliana e iodio-dipendente, nonostante viva a Londra da più di sette anni.
Il fascino eclettico della capitale inglese non finirà mai di sorprenderla, così come il Brexit e il pollo sulla pizza. Durante gli studi in Comunicazione a Bologna si appassiona alla semiotica del testo, in cui si laurea, ma un vago senso pratico, o istinto di sopravvivenza, la portano a conseguire un Master in Marketing Turistico, che oggi le permette di vivere.
Ha vissuto e lavorato a Dublino e Liege, prima di approdare nella Perfida Albione. Ama il mare, l’odore di timo selvatico, i viaggi e la scrittura. Le ultime due passioni la salvano periodicamente dalla mancanza delle prime due a Londra e nelle altre destinazioni nordiche dove (masochisticamente?) ha sempre scelto di vivere.
REDAZIONE
Wale Café
Hobrechtstrasse 24, 12047 Berlin