Cultura & spettacolo

Giuseppe Berto, la storia di un uomo che ha amato Capo Vaticano

In occasione del “Premio letterario Giuseppe Berto”, riproponiamo un articolo apparso su “Paese Sera” domenica 24 agosto 1980, a due anni dalla morte dello scrittore

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di MICHELE GARRI’

Una storia di vita particolare, una delle vicende letterarie e umane più toccanti degli ultimi anni. A Capo Vaticano maturò, a Capo Vaticano ebbe il suo epilogo. E questo luogo, di una bellezza straordinaria, è la naturale cornice di questa vicenda. Stiamo parlando di Giuseppe Berto, uomo e scrittore. Capitò in questo posto per caso, come egli stesso diceva “quando ancora i contadini portavano  le mucche e i maiali a fare il bagno, quando l’emigrazione incominciava a farsi esodo. Per loro quel mare, ora tanto decantato, quelle spiagge, quei declivi pieni di ginestre e fichi d’India, quelle fantastiche rocce, tanta ricchezza naturale insomma, significava solo fatica, fame”. Al di là quell’orizzonte ricamato dalle isole Elie: Stromboli, Vulcano, Panarea, Alicudi, Filicudi, c’era soltanto un sogno: il “cammino della speranza”. Per Giuseppe Berto, invece, perseguitato dalla nevrosi, Capo Vaticano fu l’approdo. “Appena la vidi seppi che quella dalla quale si scorgevano quelle magiche isole, era la mia seconda patria. E qui sono venuto a vivere”.

Da Nicola La Sorba, un contadino del luogo, per una manciata di lenticchie comprò metà della punta di Capo Vaticano. Qui pose le tende, qui – dice – “buttai la storia che avevo più a portata di mano, cioè la storia della mia malattia. Lavorai qua fra le pietre scrivendo una cartella dopo l’altra, con il rischio di bloccarmi fino alla fine”. Ne venne fuori “Il male oscuro”, con il Premio Viareggio e la liberazione dalla nevrosi. “Stese effettivamente questo suo libro – scrive Agostino Pantano, amico e conoscitore di Berto – restando chiuso per due mesi in una specie di bunker ricavato nel corpo di una fondazione di cemento”. Come scrittore nella bellezza di questo luogo riuscì a realizzarsi, mentre non riuscì ad impostare, inizialmente, un rapporto con la gente del posto che definitiva diversa dalla “sua gente”. Si mise in polemica con tutti e con tutto. Si eresse a giudice e a censore della cultura, dei miti, del focolare. Geloso dell’aria che respirava, come un vate cominciò a tuonare contro i nascenti scempi edilizi. Per lui questo posto sarebbe dovuto diventare un luogo per un tipo di turismo nuovo, colto, civile, un luogo di recupero per la gente estenuata dalla nevrosi.

“Turismo non è solo viaggiare – diceva – è anche venire a contatto con civiltà diverse, capirsi, amarsi. I calabresi non sono gente facile. Potrebbe nascerne incomprensione, o addirittura odio, invece di amore”. Egli stesso si improvvisò operatore turistico. Con mastro Antonio Lo Torto, un vecchio che lavorava all’antica, costruì casette simili alle «pinnate dei contadini». Aprì un night inaugurato con una mostra dello scultore Reginaldo D’Agostino. Si diede da fare innaffiando piante, mostrando il panorama ai turisti, servendo bibite. Aprì pure un ristorante che con voce dialettale chiamò il “Pipireo”. “Aprivamo la sera – diceva – e mia sorella preparava da mangiare, mentre io facevo un po’ di tutto, anche il cameriere e il barman”. Contemporaneamente scriveva articoli sul turismo, opere leggere, e instaurava un rapporto affettuoso con gli abitanti del luogo: ci chiamava “la mia gente”. “Mi ci sono voluti anni per capire questo paese, questa gente”. Ma intanto un male non più oscuro lo sospingeva verso la morte. Pochi giorni prima di morire, dal luogo di cura, ritornò a Capo Vaticano, salutò gli amici, si fermò davanti ai luoghi che aveva tanto amato. “Lo so, lo so che ormai debbo morire perché ho il cancro”, diceva. Nel volto il pallore della morte, con voce un tempo dolce, a volte strozzata dal pianto, come ultimo atto d’amore chiese di essere seppellito nel cimitero del luogo in mezzo alla gente comune, in mezzo alla sua gente, per riguardare per sempre le luci sul mare, le magiche isole Eolie.

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