A pochi giorni dall’uscita del loro nuovo album “Wrong Creatures”, l’intervista a Peter Hayes e Leah Shapiro dei Black Rebel Motorcycle Club

di Nick Matteucci - 09 gennaio 2018

Negli ultimi tempi si è parlato tanto e forse troppo della morte del rock’n’roll: c’è chi singhiozzando annuisce sommessamente e chi si rifiuta di accettarlo. I Black Rebel Motorcycle Club nel frattempo hanno sconfitto davvero la morte, ma quella vera, che aveva sfidato la batterista Leah Shapiro costringendola a combattere una dura battaglia contro una malattia molto rara, la Malformazione di Chiari, che l’ha costretta a operazioni rischiose e mesi di riabilitazione. Alla fine Leah ce l’ha fatta, non senza difficoltà, e i BRMC sono tornati, sia in studio che sul palco, per presentare il nuovo disco, Wrong Creatures, in uscita il 12 gennaio. Senza nemmeno ricamarci sopra o cercare di sfruttare il sensazionalismo della vicenda come avrebbero fatto in tanti, perché loro possono sopportarlo, come dei guardiani silenziosi, perché sono gli eroi che gli amanti di questo genere meritano, i cavalieri oscuri del rock’n’roll.

Quando arrivo al Fabrique di Milano, che di lì a poco ospiterà l’unica data italiana della band americana, ad accogliermi nel backstage c’è Peter Hayes, voce e chitarra, nonché membro fondatore della band.  Ha un’aria un po’ provata, d’altronde 41 anni, di cui 20 passati on the road, possono farsi sentire sentire di tanto in tanto. Un pezzo di storia musicale che resiste, del resto lui come la sua band, sono una delle cose più lontane che ci siano dal concetto di rockstar patinata o modaiola, anzi possiamo considerarli dei reduci o forse addirittura delle icone di quel rock underground sporco e ruvido che puzza ancora di autenticità.


What Ever Happened To My Rock And Roll (2009)

Si sente sempre più parlare di morte del rock, voi siete probabilmente i più accreditati a rispondere alla domanda, parafrasando il titolo di uno dei vostri pezzi più famosi: cos’è successo al nostro rock’n’roll? 
Peter Hayes: “Non so amico, dipende da cosa pensi che sia il rock’n’roll se è morto oppure no.Se pensi che sia solo una chitarra elettrica ed una giacca di pelle, beh… non è così per me. Forse si è solo spostato da un’altra parte, ma non credo sia morto. È una cosa individuale, ma per me sta bene”.

Ascoltando il nuovo disco ho sentito una forte influenza psichedelica, in passato tu hai collaborato con i Brian Jonestown Massacre, più recentemente Robert (Levon Been, ndr) ha fatto un featuring con Peter Holmstrom dei Dandy Warhols e poi con la band siete stati anche headliner all’Austin Psych Fest. Lo covavate dentro da un po’ questo tipo di suono?
P.H.: “Ci siamo presi il nostro tempo per questo disco, abbiamo voluto vedere che direzione avrebbero preso i pezzi, senza voler forzare nulla. Certo sarebbe facile fare un disco registrando ore di jam e mi piacerebbe pure farlo, ma poi siamo riusciti a dargli una forma”.

In effetti diversi brani hanno una durata decisamente maggiore rispetto al solito…
P.H.: “Già. Ci siamo lasciati andare, come siamo soliti fare, è buffo; perché è capitato proprio in un momento storico in cui sembra che ci sia poca pazienza per ascoltare, ma va bene così. Non ci poniamo il problema di cosa vorrà ascoltare la gente”.

La copertina dell’album in uscita il 12 gennaio 2018

Che tipo di feedback state ricevendo dai fan quando suonate le canzoni del nuovo disco dal vivo?
P.H.: “Sta andando bene, sono stati amichevoli e gentili con noi, ne ho sentiti abbastanza applaudire, non ho sentito nessuno fare ‘booooh’ ma forse si stavano solo trattenendo (ride)!”.

Probabilmente il brano più particolare e folle è Circus Bazooko, come ci siete arrivati?
P.H.: “È una cosa partita da Leah e Robert quando mi aspettavano se ritardavo alle prove. Gliel’ho sentita fare tante volte, è partita come una sorta di loop, che se sei nel mood potresti andare avanti a fare anche per un’ora e mezza. Così poi abbiamo deciso di lavorarci ed è uscito il pezzo”.

Tutti sanno che avete passato dei tempi duri di recente. In cosa avete creduto durante quei momenti? Siete religiosi?
P.H.: “Ho sempre pensato che questa fosse una domanda aperta, come quella sul rock’n’roll vivo o morto, la cosa che conta davvero è il valore che la religione (in questo caso) ha per ognuno, personalmente per me, non ne ha molto, ma c’è gente che invece muore per essa, penso sia giusto capire e rispettare questa cosa”.


Little Thing Gone Wild

Intanto entra nel camerino anche la batterista Leah Shapiro, Peter le dice che stavamo parlando di religione in relazione alla domanda su dove avessero trovato la forza per superare i momenti più duri.

Leah Shapiro: “Non nella religione. Ti direi più una combinazione di cose, come il supporto di tanta gente, della famiglia, degli amici, di altri musicisti… Ma anche avere un incredibile chirurgo ed essere stati testardi”.
P.H.: “Io credo che forse nella gente ci sia un bisogno di sentirsi connessa ad un particolare livello. La mia domanda è perché? Tipo perché a me dovrebbe importare, se a te non importa un cazzo di me? Credo che ad un certo punto dovremmo farci un’idea per noi stessi, capire perché vogliamo vivere, io penso a questo. Poi c’è anche chi si chiede se finirà all’inferno o cose così, è una domanda infinita, ma io penso a me stesso”.
L.S.: “Guarda, a me non piace usare la parola atea, preferisco dire non-follower di nessuna organizzazione religiosa perché non sento quel tipo di connessione. Considero importante vivere in pace con le altre persone, essere comprensivi e gentili con il prossimo. Non appartenere a nessun gruppo religioso non significa essere dei pezzi di merda, io non sono intollerante, certi valori sono semplicemente universali”.

Dopo aver letto il testo di Carried from the start ho pensato che fosse la canzone che, più di ogni altra, simboleggiasse l’affrontare la morte ed il mistero di quello che di più oscuro il destino ci riservi. Ci sono andato vicino?
L.S.: “Secondo noi non c’è un modo univoco o giusto in cui interpretare la canzone, che sia dal punto di vista musicale, del testo o la somma di essi”.
P.H.: “Sai cosa? È bellissimo che tu sia arrivato a quest’idea, questo per me è vivere la vita “col cuore”, pensare alle cose, tu ci hai letto questo, cercando di leggere nel cuore di qualcun altro. Questo per me è rock’n’roll. È per questo motivo che per me ha poco senso chiedersi se il rock’n’roll sia vivo o morto. La domanda che mi ha ispirato molto in questo disco invece è: cosa c’è di lontano nella mia testa che vuole connettersi con il resto? Che siano altri umani qualcos’altro. Perché faccio musica? Perché parlo con me stesso, chiedendomi aiuto. Ho un cazzo di problema mentale se chiedo aiuto a me stesso? Tipo ‘Hey, sono io! Sto parlando con te!’ A chi cazzo sto parlando? È un pensiero che ho da sempre e che ho ancora, mi chiedo cosa mi trasporti davvero, già da quando ero piccolo, dai i miei genitori, alla società, alla cultura”.

C’è una canzone che in questo disco invece rappresenta in qualche modo la vittoria sulla morte?
L.S.: “Beh, ad un certo punto la morte probabilmente vincerà, su tutti (ride)! Non oggi, ma un giorno!”.

Certo! Ovviamente, ci sto un po’ girando intorno, ma il punto era capire se quello che è accaduto a Leah abbia ispirato la vostra musica in questo disco.
L.S.: “Chiaro. Non c’è una cosa che ci abbia ispirati direttamente, non abbiamo sentito una sorta di chiamata. Sicuramente inizi ad apprezzare maggiormente certe cose. È stata una sfida, passata attraverso lunghi momenti in cui mi sono trovata ad essere limitata sia fisicamente che mentalmente, ma ora che è passata non è che mi senta invincibile, o che mi ci senta più di altri”.
P.H.: “Trovarsi nella situazione di Leah ti fa pensare. Può capitare a chiunque, non importa chi sei. Qualsiasi cosa significhi la morte, la vittoria sta nel vivere in uno stato di grazia per me”.

Leah, ci sono stati degli artisti in particolare che hai ascoltato durante il periodo in cui hai combattuto contro la tua malattia?
L.S.: “Sinceramente non c’è stato un periodo in cui sia stata più disconnessa dalla musica in vita mia. Ero troppo preoccupata a rendermi conto di che cazzo mi stesse accadendo e capire cosa fare, era molto facile rischiare di chiudersi in sé stessi ed impazzire, anche solo vedendo i video degli interventi che avrei dovuto subire. Dopo l’operazione però ho ricominciato ad ascoltare soprattutto la nostra di musica, anche per rientrarci dentro e imparare di nuovo i pezzi per tornare a suonare prima possibile, per il resto invece era la stessa musica che sentivo anche prima, da Tom Waits agli Spiritualized, poi i nostri amici The Black Ryder, o roba blues, o Johnny Cash. Musica che mi aiutasse, la musica aiuta sempre, basta che non ascolti roba depressa. È stato un periodo molto caotico”.

Ricordi qualcosa in particolare di quando siete finalmente tornati in sala a suonare?
L.S.: “La prima volta che ci rivedemmo in sala prove fu per un’oretta e qualcosa, meno di due ore comunque, anche perché non potevo esagerare all’inizio. Ricordo che Rob fu molto accorto a non esagerare coi volumi. Poi c’è stato il primo concerto, che fu in un grosso festival ed ero molto nervosa anche se era una situazione che avevo già vissuto spesso in passato. Alla fine fu una bellissima sensazione, rendersi conto di poter finalmente tornare a suonare”.

Nel caso le cose non fossero andate bene, smettere è mai stata un’opzione?
P.H.: “Ti dirò… sì. Il problema piuttosto era, cosa farò se smetto? Io non ho altre cose in cui sono bravo. Era spaventoso, l’idea di smettere di credere nell’energia della musica, affrontare un cambiamento così grande”.
L.S.:
“Ovviamente anche per me la paura di cosa fare nella vita se non fossi stata in grado di rimettermi a suonare era consistente. Anche perché parliamo di una vita che già di suo non è facile, quella del musicista, è dura arrivare a certi livelli ed ancora più tosta rimanerci, devi essere in grado di sostenere molti sforzi sia in tour che quando registri. Però vaffanculo a tutte queste ansie, alla fine è andato tutto bene e siamo tornati!”.