L’omaggio originale, documentatissimo e genuinamente appassionato di “Gainsbourg. Niente è già tanto”, il libro di Boris Battaglia pubblicato da Armillaria Editrice. L’intervista all’autore

di Adriano Ercolani - 29 maggio 2018

Serge Gainsbourg, icona fascinosa e fieramente indecente della trasgressione artistica, come tutti I grandi autori di successo è rimasto imprigionato, nella percezione collettiva, all’interno della cornice dei suoi brani più celebri. In realtà, Gainsbourg è molto di più di Je t’aime…Moi non plus, è un autore capace di scrivere canzoni oltraggiose, quasi intollerabilmente scorrette, e allo stesso tempo confortanti brani per le masse, un personaggio in grado di incarnare il mito del grande seduttore pur essendo oggettivamente brutto e in seguito proporsi volutamente come una figura pubblicamente ripugnante, soprattutto un brillante decostruttore della forma – canzone convenzionale, coraggioso nell’esplorare ante litteram nuovi generi come l’hip pop e nel rimettere sempre completamente in discussione la sua identità.

Serge Gainsbourg © Claude Truong-Ngoc, 1981

Ora, per Armillaria, è in libreria Gainsbourg. Niente è già tanto di Boris Battaglia, un omaggio originale, documentatissimo, genuinamente appassionato eppure criticamente lucido a un artista amato alla follia, ben analizzato anche negli aspetti più triviali della sua figura. Il libro è arricchito con illustrazioni originali di P. Castaldi, L. Canottiere, A. Calvisi, L. Sartori, C. Calia, C. Panzeri.

La copertina del libro

Battaglia le spara grosse, a volte, ma sa argomentare molto bene, per paradossi continui, calembour arditi, citazioni continue che mescolano alta filosofia e cultura pop, soprattutto attraverso una sistematica sconfessione dei luoghi comuni; ama dissacrare, buttare giù gli idoli, con nessun rispetto per le icone inviolate, siano esse miti della cultura popolare o giganti del pensiero: possiamo perdonargli, ad esempio, l’irrisione delle considerazioni kantiane sulla musica, ma riteniamo imperdonabile (secondo solo a quello di Oliver Stone) l’oltraggio a Sua Maestà Nico! Scherzi a parte, al di là della funzione ottima di prontuario per intodurre neofiti all’opera del cantautore francese, la parte forse più interessante del libro è proprio la lunga, dotta sezione di apertura del libro (ritmato dai pacchetti di Gitanes fumati da Gainsbourg), una approfondita riflessione estetica, di alto livello, sul concetto stesso di canzone.

Un libro che trabocca spunti, stimoli, percorsi di ricerca. Ne abbiamo parlato con l’autore.

Nel libro definisci più volte Gainsbourg “uno dei più grandi autori di canzoni di sempre”. Puoi spiegare, in sintesi, perchè?
“Certo può sembrare un’affermazione apodittica, esagerata, di quelle da fan incapaci di riflessione critica. Ma Gainsbourg è stato effettivamente uno dei più grandi autori di canzoni del secolo scorso. Non tanto per la parte più evidente, quella sua immagine scandalosa e scandalizzante, tutta provocazione sessuale, soltanto per la quale spesso e purtroppo è conosciuto, che comunque è servita a dare alla canzone farncese un respiro moderno; ma soprattutto per la sua capacità di scrittura. Gainsbourg considerava, quasi con disprezzo, la canzone come un’arte minore, gli veniva facilissimo scriverle e le usava cinicamente per trovare fama e denaro. Nell’inesausto tentativo di dimostrare la fondatezza di questo suo pregiudizio ha preso la forma canzone classica, quella dei grandi interpreti del dopoguerra, e l’ha rimontata sui formati pop anche più effimeri e modaioli. Facendolo però ha creato un corpus di opere che dimostrano esattamente il contrario. La sua grandezza, a mio avviso, sta qui, avere dimostrato senza lo snobismo intellettuale di certi autori che si credono di afr poesia, ma rimestano spesso anche nella merda più commerciale, che ci sono più cose nella più insulsa delle canzonette che in tutta la riflessione filosofica del novecento”.

La copertina dell’album

Qual è secondo te la qualità peculiare di Gainsbourg rispetto alla sacra triade del cantautorato francese Brassens, Brel, Ferré?
“La differenza principale con quella che definisci triade sacra (per carità, tutti autori che amo senza condizioni) è che Gainsbourg è il primo, nella canzone francese, a comprendere l’importanza dello studio di registrazione. La sua è solo ancora un’intuizione, saranno altri autori poi, come Bashung a portare a compimento questa rivoluzione, ma il punto è quello: le canzoni si costruiscono in studio. Nessun elemento è più importante di un altro. Sono strutture complesse, fatte di melodia, ritmo, testo, interpretazione: un prodotto commerciale che deve funzionare perfettamente. Gainsbourg è il primo in Francia a usare la formula dei concept album. Per Brassens, Brel e Ferrè le canzoni erano parte della loro vita, un lungo recital ininterrotto. Per Gainsbourg le canzoni sono un niente che dura una manciata di minuti. Un niente come la vita. Ma a differenza della vita devono essere perfette. E possibilmente andare in classifica”.

Domanda da cento milioni: Gainsbourg, non esattamente un Adone secondo i canoni convenzionali, ha conquistato alcune delle donne più desiderate del pianeta. Tu stesso confessi che in qualche modo una sua foto particolare da giovane ti ha destato un turbamento improvviso. Qual è per te il quid del suo fascino? Il genio? La ribellione? Il vorace appetito lussurioso? Lo sguardo?
“Gainsbourg non era bello, no. Lui si riteneva addirittura più brutto di quanto fosse in realtà. E questa cosa lo ha ossessionato tutta la vita, fino a diventare il suo strumento di seduzione. Come per le canzoni, in lui ogni singolo dettaglio era studiato fino alla naturalezza e collegato agli altri a creare l’immagine generale. Tutto è importante, il suo blazer, la camicia aperta, gli occhiali da sole, il modo di tenere la sigaretta, il modo in cui ne faceva cadere la cenere. Tutto partecipava a creare un’attitudine seduttiva giocata su una forte ambiguità. Giocata su eleganza e trasandatezza, violenza e delicatezza, educazione e volgarità, pornografia e romanticismo, machismo e omoerotismo (pensa alla copertina di Love on the beat, quella di cui racconto nel libro che ebbe su di me un effetto emotivo fortissima, o alla sua versione di Mon Légionaire). Credo che Gainsbourg rappresentasse tutti gli aspetti possibili dell’erotismo e che questo funzionasse come magnete. Poi probabilmente aveva ragione Marianne Faithfull quando disse che Serge bastava guardarlo per essere certe che non si sarebbe uscite dalla sua camera se non pienamente soddisfatte. Ti dico, è capitato persino a me con quella copertina!”.

© Paolo Castaldi (una delle illustrazioni contenuta nel libro)

Quali sono le innovazioni, per te, determinanti che Gainsbourg ha apportato nel concetto di “canzone”?
“Se consulti i repertori e le storie della canzone francese d’autore fino agli anni settanta ti accorgi di una cosa strana. Per ogni autore e interprete non sono indicate le opere, i dischi o le canzoni, ma i recital e gli spettacoli. La grande innovazione di Gainsbourg è quella di portare la canzone d’autore nella modernità. Di dare il giusto rilievo alla costruzione della canzone di cui l’interpretazione è solo un elemento. Per farlo guarda oltre i confini di Francia, saccheggia le musicalità africane, quelle giamaicane e il pop inglese più triviale, il funky e l’hip hop. Gainsbourg è il primo autore di canzoni francese continuamente contemporaneo al tempo che sta vivendo. Non è un caso che, unico tra i suoi colleghi, avrà un pubblico più giovane di lui di almeno tre generazioni. Con lui (e va detto: anche con il suo coetaneo Nougaro) la canzone cambia completamente statuto ontologico, non è più un messaggio di verità lanciato da un palco, ma un prodotto complesso e ambiguo passato in radio”.

Perché, secondo te, il suo impatto è considerato minore rispetto ad artisti celebratissimi come Dylan o Cohen?
“Lingua a parte, anche Brassens e Brel sono considerati più seminali…forse perché più imitabili? Bisogna distinguere due cose. Quella che è la percezione dell’influenza gainsbourghiana e la sua realtà di fatto. Due cose limitano la conoscenza e l’apprezzamento di Gainsbourg presso un pubblico più vasto al di fuori di Francia. La sua assoluta francesità (testi e atteggiamneti) e il suo assoluto cinismo (autodistruttivo e senza speranza alcuna, molto diverso da quello di un Tom Waits per dire … ). Diversa è la questione della sua influenza sugli autori. Per restare alla Francia pensa all’influenza che ha avuto su Renaud e su Bashung, su un gruppi come gli Air o i Daft Punk, su Sebastien Tellier, su un produttore come Sebastian Akchoté. Per non parlare degli anglofoni, da Nick Cave ai R.E.M., passando per Cat Power e Pj Harvey. In Italia basterebbe la lezione dei Baustelle. Di Brel e Brassens si fanno decisamente più cover e traduzioni (spesso infelici), ma Gainsbourg con la sua idea di forma canzone è stato quello veramente seminale”.

Se dovessi scegliere un disco fondamentale, quale indicheresti? E quale invece consiglieresti a un neofita per un primo approccio?
“Come racconto nel saggio quello cui sono più affezionato, per motivi biografici è Love on the Beat, il suo penultimo album del 1984. Quello fondamentale però, per originalità e portata rivoluzionaria è Histoire de Melody Nelson, album del 1971 che sta, in un ipotetica lista dei dischi più seminali di sempre, tra Sgt. Pepper e Sandinista. A chi si avvicina per la prima volta a Gainsbourg consiglio la raccolta Double best of Gainsbourg, uscita per la Mercury nel 2014 che in 25 tracce ripercorre la sua carriera fino al 1984, oppure lo splendido Live registrato al Casino de Paris nel 1985″.

Jane Birkin e Serge Gainsbourg, Londra 1971.T © AP Photo/Robert Dear

Chi preferisci tra Gainsbourg e Gasbarre? O sono un’identità bifronte inestricabile?
“Il discorso sulla vera identità di Gainsbourg è complessisismo e, come cerco di spiegare nel saggio, cercare di districarlo rischia di non portare a niente. Ci sono due cambi di identità fondamentali nella sua vita: da Gisnburg a Gainsbourg e da Gainsbourg a Gainsbarre. Tutti e due segnano un discrimine. Se gli assoluti capolavori rientrano nel periodo Gainsbourg, quello della vita condivisa con la più bella dei seventy: Jane Birkin, non posso però negare che, data la mia inclinazione per i cattivi maestri, Gainsbarre sia la sua incarnazione che preferisco”.


Gainsbourg intervista Gainsbarre, 1989

In quali artisti trovi, degnamente, la sua influenza?
“Già prima, parlando dell’impatto delle innovazioni gainsbourghiane ho fatto un po’ di nomi. Aggiungerei restando in Francia la cantautrice Camille, per alcuni versi molto rap e un gruppo come La Femme. Poi sai, io Gainsbourg, sarà la mia ossessione, lo sento dappertutto: persino se ascolto Sapore di sale di Gino Paoli“.