Dalla Somalia al Congresso Usa, il lieto fine di Ilhan diventa film

di Giuseppe Sarcina

È anche «ll Tempo di Ilhan», nell’America di Donald Trump. Giovane. Donna. Musulmana. Figlia di immigrati. È la prima somala-americana eletta in un Parlamento del Paese, quello dello Stato del Minnesota. Nell’autunno scorso il settimanale Time aveva inserito Ilhan Omar, 35 anni, tra le «46 donne che stanno cambiando il mondo». Adesso la regista Norah Shapiro ha girato un film-documentario sulla sua storia, proiettato in anteprima sabato scorso al Festival Tribeca di New York. «Time for Ilhan», appunto. Un titolo che può sembrare provocatorio: nel gennaio 2107 Omar giurava fedeltà alla Costituzione americana, prendendo possesso del seggio nella Camera dei rappresentanti in Minnesota. In quello stesso mese, alla Casa Bianca, il presidente firmava il «muslim ban», che colpiva anche i viaggiatori provenienti dalla Somalia.

Ilhan è nata a Mogadiscio in una famiglia, numerosa, di funzionari dello Stato e insegnanti. Era ancora piccola quando sua madre morì. Nel 1991 arrivò la guerra civile che portò alla caduta della giunta militare di Siad Barre e al caos che dura tuttora.

La famiglia Omar scappò dalla capitale. Trovò rifugio in un campo profughi del Kenya, dove rimase 4 anni. Nel 1995 emigrò negli Stati Uniti, prima ad Arlington, vicino a Washington, e poi a Minneapolis, nel Minnesota. Ilhan aveva 12 anni. Tre mesi dopo parlava benissimo l’inglese. Era pronta, era una «dreamer», figlia di immigrati con il «sogno americano» a portata di mano. Fin da ragazza alterna lo studio con l’attivismo sociale. Studia Scienze politiche e Affari internazionali alla North Dakota State University e si unisce all’Associazione degli studenti Musulmani. Ed eccola qui, sempre con un foulard sulla testa per coprire i capelli, lavorare prima come educatrice a Minneapolis e poi avvicinarsi alla politica, come volontaria e campaign manager di candidati locali.

Non va sempre tutto liscio. Gli scontri elettorali sono duri e Ilhan è un bersaglio fin troppo facile per i gruppi della destra più radicale, islamofobica, anti-immigranti. Gli attacchi toccano anche la sua sfera privata. A 19 anni si era fidanzata con Ahmed Hirsi. I due si volevano sposare, ma non riuscirono a ottenere la licenza matrimoniale. Costruirono, comunque, una famiglia con tre figli. Poi divorziarono nel 2008. Nel 2009 Ilhan sposò un altro uomo, Ahmed Nur Said Elmi, ma l’unione durò tre anni. Nel 2011 tornò con Hirsi, senza risposarsi.

Gli avversari periodicamente l’attaccano: non è una condotta da buona musulmana. Ma in verità la giovane somala è già il punto di riferimento della comunità del Corno d’Africa. Nel 2015 diventa la Direttrice per le politiche e le iniziative del «Women organizing women network». L’anno dopo il passo naturale: la candidatura per un seggio parlamentare del Minnesota. La regista Shapiro, di Minneapolis, l’aveva già notata. Decide allora di seguirla fin dal primo giorno, nelle primarie all’interno del Partito democratico, dell’agricoltura e del lavoro. Vince, battendo Phyllis Kahn, la deputata in carica addirittura dal 1973. Il programma di Omar è puntato su istruzione, ambiente, sostegno alle fasce più povere, aumento a 15 dollari della paga minima oraria, libertà di scelta sull’aborto. Nell’autunno, supera il repubblicano Abdimalik Askar, anche lui un attivista somalo-americano. Durante il duello finale un blogger dell’estrema destra, Power Line, prova a fermarla con tutto il repertorio di colpi bassi cui siamo ormai abituati: sei una clandestina, una concubina e così via.

Ilhan trita tutto e adesso il suo foulard è visibile anche a Washington, dove il Partito democratico cerca volti nuovi, freschi e convincenti per rovesciare la stagione trumpiana.

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