Elena, Armanda, Neema e le loro api, guerriere del clima

M. Pelliccia e A. Zarlenga)

Eleni Vasilaki, professoressa dell’Università di Sheffield, sta progettando droni-ape capaci di prendere decisioni autonome. Armanda Manghi, tra le colline di Parma, crea corridoi verdi per le sue api, per sopperire agli effetti dei cambiamenti climatici. Neema Ramesh Bilkule, una contadina del Maharashtra, nel cuore siccitoso dell’India, grazie all’apicoltura ha aumentato le produzioni di mango, guava e peperoncini, evitando di migrare nelle grandi metropoli indiane, come tante persone di questa zona duramente colpita dal cambiamento climatico. Sono alcune delle storie raccontate in La Rivoluzione delle Api (Nutrimenti Edizioni) scritto da Monica Pelliccia e Adelina Zarlenga.

Monica Pelliccia e Adelina Zarlenga«La rivoluzione delle api» Nutrimentipp118, 16 euro
Monica Pelliccia e Adelina Zarlenga«La rivoluzione delle api» Nutrimentipp118, 16 euro

Un viaggio tra narrazione, inchiesta e saggistica per conoscere le donne e gli uomini che, da un capo all’altro del mondo, stanno innescando un cambiamento nella produzione di cibo. Tra le protagoniste ci sono apicoltrici e contadine, scienziate ed esperte che lottano per la tutela delle api e per fare dell’apicoltura uno strumento di agricoltura sostenibile. ll lavoro femminile è al centro della narrazione anche attraverso il linguaggio di genere che evita l’ uso sessista dell’italiano: «un cambiamento necessario visto che solo il 24 per cento delle notizie giornalistiche globali e il 21 per cento di quelle italiane ha delle protagoniste femminili, secondo il Global Media Monitoring Project» ci tengono a sottolineare le autrici. Le donne sono interpreti di un’agricoltura e un’alimentazione più consapevole, che preservi le varietà locali, i territori e le popolazioni che coltivano e producono anche negli angoli più remoti del pianeta. Sono il motore di una rivoluzione.

Mango

Neema indossa un vestito rosso a fiori e un foulard verde le avvolge i capelli, colori che fanno sì che si confonda nel lussureggiante paesaggio che la circonda. Una volta ogni 15 giorni, percorre i due chilometri a piedi che la conducono ai suoi alveari. Un cammino costeggiato da fiumi resi prepotenti dalle piogge monsoniche che passano vicino ad alberi di mango, campi di mais che devono ancora offrire i loro frutti e tappeti di risaie, dove fanno capolino i suoi vicini e vicine. Stanno lavorando con pantaloni e vestiti rimboccati, coperti da ingegnose strutture che hanno fabbricato per proteggersi dalla pioggia, costituite da un’anima di legno rivestita da cartelloni pubblicitari di plastica trovati per strada. Visti da lontano, dalla stradina che sta percorrendo Neema, ricordano dei novelli piloti di deltaplano che hanno ripiegato le loro ali colorate, appena dopo aver compiuto l’atterraggio. Trapiantano gli steli di riso incuranti del monsone, scambiando saluti e chiacchere al suo passaggio.

Dall’altro lato della risaia due buoi trainano con pigrizia un aratro di legno, Neema gli passa accanto mentre cammina sui bordi infangati che separano le risaie dai campi di mais, protetta dalla pioggia grazie a un largo ombrello nero. L’apicoltura è entrata a far parte della vita di Neema solo due anni fa. Prima, per lei, questi insetti erano solo dei fastidiosi ronzii o degli inquilini da sfrattare dagli alveari selvatici localizzati nella foresta, per accaparrarsi il prezioso miele da vendere nei mercati locali. Essere honey hunters, persone che vanno a caccia di miele, è una pratica diffusa in varie zone dell’Asia ma anche dell’Africa e del Latinoamerica. Dalle foreste tropicali della zona che circonda Calcutta, nel Bengala Occidentale, a quelle dello Stato del Maharashtra, le persone organizzano spedizioni nella selva, durante la stagione di raccolta del miele, sfidando gli animali feroci che la popolano come tigri, serpenti e coccodrilli. Una pratica pericolosa -gran parte delle famiglie di honey hunters possono raccontare di essere state attaccate da una tigre- realizzata ancora oggi in zone rurali e tramandata di generazione in generazione, principalmente dalle tribù indigene. L’obiettivo della rischiosa ricerca è quello di accaparrarsi gli alveari delle api selvatiche costruiti sugli alti rami degli alberi, per poi tornare a casa con un bottino che può arrivare fino a centinaia di chili di miele a persona. Le honey hunters salgono sugli alberi, bruciano gli alveari per allontanare le api e poi li tagliano con lunghi coltelli per far fuoriuscire e raccogliere il miele. Una consuetudine, che ha ridotto la popolazione delle api selvatiche originarie dell’India.

Le famiglie contadine di Kevdipada parlano delle api come se fossero un qualunque animale da cortile che popola le fattorie locali. Quelle di cui si prende cura Neema vivono nei piccoli alveari che lei ha costruito a mano, tagliando e limando il legno per creare una casa dove poter edificare la loro ordinata società. Per prima cosa ha fabbricato la struttura esterna di ogni arnia, la cornice e poi i favi da inserire al suo interno. Le api sono stati la chiave per portare avanti un’idea ambiziosa, che vuole innescare una rivoluzione sostenibile nell’agricoltura indiana. Quella in cui crede una ong locale, Under the Mango Tree, che porta avanti l’idea rivoluzionaria di utilizzare il lavoro meticoloso delle api per incrementare la produzione agricola grazie all’impollinazione, soprattutto in zone remote e rurali di alcuni degli Stati più poveri dell’India centrale: Maharashtra, Gujarat e Madhya Pradesh.
(da La Rivoluzione delle Api (Nutrimenti Edizioni) di Monica Pelliccia e Adelina Zarlenga)

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