Bombe e signori della guerra, il voto in Afghanistan visto dalle donne

di Marta Serafini
Roshan Belquis Roshan Belquis
Roshan Belquis

Una è Samia Walid, attivista di Rawa Revolutionary Association of the Women of Afghanistan, associazione di donne che da trent’anni si impegna per i diritti umani e per un Afghanistan laico e democratico. Oggi Rawa gestisce progetti che offrono istruzione, formazione, assistenza medica, sostegno alle vittime di guerra, rifugio alle donne maltrattate, accoglienza ai bambini orfani. La fondatrice, Meena, fu assassinata nel 1987 dagli agenti afghani del Kgb, dieci anni dopo l’invasione sovietica. L’impegno dell’associazione, sia sul piano umanitario che su quello politico, è cominciato sotto l’occupazione sovietica e continua ad oggi, fra mille difficoltà e pericoli. Samia non utilizza il suo vero nome e non si mostra in volto.

L’altra è Roshan Belquis , 47 anni, senatrice della provincia di Farah, una delle più complicate dell’Afghanistan. Nella Meshrano Jirga, la Camera Alta del Parlamento. ha condotto battaglie storiche contro i signori della guerra e contro l’occupazione americana. Combattiva, schietta e indipendente, è riuscita a conquistare l’affetto e la stima del suo popolo per le sue coraggiose denunce e ora ha deciso di ricandidarsi. Entrambe sono donne che lottano per la parità di genere e sono sostenute dal CISDA, il Coordinamento italiano di sostegno alle donne afghane. E in queste ore, mentre sono in corso le votazioni per il Parlamento in Afghanistan, commentano la situazione politica di un Paese in guerra da sempre e che anche nella giornata di oggi non ha visto fermarsi le violenze.

Solo nella giornata di sabato sono morte almeno 50 persone e 123 sono rimaste ferite. Ha senso indire le elezioni in uno Stato al collasso?

Samia: «Per me non si può parlare di libero voto in un Paese che è militarmente occupato. Ma non sono solo le potenze straniere il problema. L’Afghanistan è in mano ai signori della guerra, alla mafia e ai gruppi terroristici. Sono loro a decidere per tutti».

Belquis: «Non mi aspetto molto da questo parlamento ma ho deciso di candidarmi dopo che molte persone del mio distretto me lo hanno chiesto. Vogliono vedere qualcuno che si occupi davvero dei loro interessi. Per il resto la democrazia in Afghanistan è solo un’etichetta, tuttavia credo valga la pena di utilizzare le istituzioni che abbiamo a disposizione per cambiare il sistema dall’interno»

Fare politica può servire a migliorare la condizione delle donne afghane?

Samia: «Anche se non tutte le candidate sono uguali, le donne stesse che vogliono entrare in Parlamento devono sottomettersi al controllo dei signori della guerra. Fosse anche solo per ricevere i soldi per fare campagna. Ed è a causa di questi legami che mai le vedremo impegnarsi davvero contro temi che danno fastidio, come gli abusi sessuali o lo molestie».

Belquis: «Finché l’Afghanistan resterà un paese militarmente occupato e sotto il controllo dei fondamentalisti, l’emancipazione delle donne sarà impossibile. Negli ultimi 17 anni la condizione delle donne è peggiorata. E anche se alcune donne vengono mostrate come simbolo positivo di emancipazione, la maggioranza di noi vive esattamente come nel 2001».

Un presidente donna – nella primavera dell’anno prossimo ci saranno le elezioni presidenziali – potrebbe giovare a un cambio di passo sulle questioni di genere?

Samia: «Credo che prima di tutto bisognerebbe puntare alla rifondazione di un Afghanistan libero dall’occupazione militare. Dobbiamo ripartire da qui. Altrimenti la questione femminile diventa solo un ennesimo strumento di propaganda»

Belquis: «Non c’è alcun differenza tra un presidente uomo e uno donna se non riesce ad essere indipendente dal sostegno e dalle forze straniere. All’inizio del 20esimo secolo l’Afghanistan ha avuto una guida nobile e laica, re Amanullah Khan. Era un uomo ma ha giocato un ruolo fondamentale nell’emancipazione delle donne».

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