Fania Oz: «In Israele il problema è la spaccatura fra tradizione e società globale»

di Letizia Rittatore Vonwiller

Torna l’appuntamento annuale con Mens-a, l’evento Internazionale dedicato al Pensiero ospitale e al Cosmopolitismo, il primo festival di cultura diffusa, in programma a Bologna, dal 23 al 25 maggio, per proseguire poi a Vignola, Ravenna, Modena e Parma. In programma incontri, talk show e tavole rotonde sul tema della cultura, come strumento di comunicazione e integrazione tra popoli e società.

Tra gli ospiti Fania Oz-Salzberger, per la prima volta in Italia dopo la morte del padre, il celebre scrittore Amos Oz, Alessio Vassallo, Sergio Givone, Oscar Farinetti, Eugenio Borgna, Barbara Bracco, Michele Colajanni. Filo conduttore di quest’anno, sono La Memoria e il Possibile, il legame profondo tra il ricordo e il limite. Per questo Mens-a apre, il 23 maggio a Bologna, con le parole dello scrittore israeliano Amos Oz, nella serata dal titolo Per Amos Oz: la Memoria nelle parole: un omaggio alla poetica della pace nella memoria delle parole dello scrittore scomparso a 79 anni. La figlia Fania Oz-Salzberger, insieme ai reading a cura dell’attore Alessio Vassallo, svelerà il mistero autobiografico e universale della sua scrittura. Noi l’abbiamo intervistata.

Fania Oz-Salzberger, scrittrice israeliana, docente di storia all’Università di Haifa, parla dello straordinario rapporto con il padre - cui assomiglia moltissimo - che, pur amando Israele, ha sempre cercato di contrastare le politiche del suo governo nei confronti dei palestinesi e si è impegnato per una soluzione pacifica e negoziata del conflitto. Le parole della professoressa Oz-Salzberg, che ha raccolto l’eredità paterna per continuare a trasmetterla, sono ancora più importanti, ora che si è inasprito il conflitto israelo-palestinese. Perché ha deciso di prendere parte all’evento Mens-A? «Questo evento riguarda le parole. Sono una donna di parole. Come storica, guardo l’impatto delle idee pubblicate su storia e politica. Come scrittrice e studiosa, ho avuto la fortuna di essere co-autrice con mio padre del libro Gli ebrei e le parole (ndr Feltrinelli). Abbiamo esplorato l’invenzione ebraica, ora un valore globale, di insegnare a ogni bambino l’amore della lettura e della discussione. Parlando del nostro libro e delle nostre numerose conversazioni, offrirò agli ascoltatori un memoriale di mio padre fatto dalle sue e mie parole».

Quanto è importante la memoria nella letteratura di suo padre?
« Nessuno scrittore può lavorare senza memoria. Mio padre si è servito della sua memoria, uno strumento potente con ricordi della prima infanzia incredibilmente chiari. E ha anche fatto uso della memoria testuale e di quella culturale, ebraica e non ebraica. Lui parlava di memoria con un luccichio negli occhi: i ricordi privati e collettivi non sono né un tempio né un museo né un luogo di sante reliquie. La sua attitudine alla memoria era inventiva, giocosa. “I fatti”, disse una volta, “a volte possono essere il peggior nemico della verità”. Poco prima che la sua malattia diventasse fatale, stavamo iniziando un nuovo libro sulla verità. Volevamo confrontare verità storiche, politiche, legali e letterarie. Volevamo suggerire che alcune delle più grandi verità possano non essere mai accadute e che una persona possa avere una profonda nostalgia per un luogo mai visitato».

Il lavoro di suo padre è più apprezzato in patria o all’estero?
« Gli israeliani tendevano a essere più critici, a volte ostili, ma molti lo amavano. Penso che abbia avuto lettori meravigliosi ovunque nel mondo. Una volta mi disse con grande eccitazione di aver ricevuto una lettera da una donna napoletana. Gli aveva scritto che il suo libro Una storia d’amore e tenebra era simile alla sua infanzia a Napoli. Com’è possibile? Questo è, disse, il miracolo che chiamiamo letteratura».

Quali sono state le sue più importanti iniziative di pace?
«Era uno scrittore e una voce pubblica, non un politico. La sua voce per la pace risuonò subito dopo la guerra dei Sei Giorni del 1967, quando pubblicò un articolo controcorrente che invitava il governo israeliano ad abbandonare i territori appena occupati, prima che questa conquista causasse gravi danni a Israele. Negli anni successivi ha ispirato e co-fondato il movimento Peace Now, ha sostenuto i partiti politici che si battono per il compromesso con i palestinesi e ha partecipato attivamente all’iniziativa di Ginevra per la pace israelo-palestinese negli anni 2000. Ahimè, i politici - israeliani e palestinesi - non l’hanno ascoltato. Penso che mio padre abbia adattato il suo talento di scrittore all’empatia umana e politica, all’ascolto, al mettersi nei panni dell’altro, all’immaginazione delle speranze, dei sogni e degli incubi dell’altro. Ha cercato di portare i suoi doni fantasiosi ed enfatici al tavolo dei negoziati. Continuava a dirci: “La pace arriverà quando le persone saranno in grado di ascoltare, davvero, le storie più profonde dell’altro”».

Secondo lei, come possono essere combinate le idee dell’ospitalità con le politiche xenofobe e populiste?
«Come storica del pensiero politico, il mio interesse non è nel concetto di ospitalità così com’è. Mi concentro sulla virtù della cittadinanza, unita a un certo grado di simpatia umana. Il mondo di oggi, in particolare l’Europa, è pieno di viaggiatori, migranti e rifugiati. Non esiste più l’idea di ospitare, ma di educare il nuovo arrivato alla cittadinanza, con empatia e pazienza. Come già sapeva Cicerone, la cittadinanza ha doveri e diritti. Una persona che fugge dalla morte ha inizialmente bisogno di semplice simpatia umana; ma diritti, educazione e doveri devono seguire. Mentre dobbiamo combattere la xenofobia e il populismo, non possiamo permetterci di ignorare le paure profonde dei loro seguaci. La simpatia umana non funzionerà da sola, se non è combinata con una vera educazione civica».

Quali potrebbero essere gli argomenti per contrastare chi vuole rifiutare i migranti?
«Siamo tutti fatti a immagine di Dio; o, nel mio linguaggio secolare, tutte le vite umane meritano pari valore e dignità. Tuttavia la disuguaglianza globale è immensa e la nostra generazione non la risolverà. La cosa migliore è accogliere umanamente i migranti, chiedendo il rispetto reciproco. I leader populisti che incitano all’odio devono essere affrontati ovunque nel mondo; ma alcuni dei loro seguaci meritano la nostra attenzione. Come ho recentemente affermato in alcune interviste, la sinistra e la destra devono iniziare un nuovo dialogo con urgenza. La condizione necessaria per questo confronto è l’uguale valore delle vite umane e della dignità. Per il resto, discutiamo razionalmente e rispettosamente».

Suo padre ha venduto libri in tutto il mondo e ha ricevuto dozzine di premi internazionali, che cosa ha lasciato?
«Una famiglia affranta e meravigliosa; più di 30 libri; centinaia di articoli, conferenze e interviste; milioni di lettori in dozzine di lingue; alcune immagini e idee che rimarranno per un po’ nel mondo».

Ha vissuto in un kibbutz come suo padre? Com’è stata l’esperienza?
« I miei genitori erano membri del kibbutz; mia madre è nata nel Kibbutz Hulda che i suoi genitori e i loro amici hanno fondato negli anni ’30. Mio padre è entrato da adolescente orfano. Si sono sposati all’età di 21 anni e io sono nata poco dopo. Tutta la mia infanzia e la mia giovinezza sono trascorse nel kibbutz, vivendo e dormendo nella “casa dei bambini”, ma passando ogni pomeriggio con i miei genitori. Non ero una tipica ragazza kibbutz di quei tempi; troppo riservata, troppo tranquilla, troppo sognante. Ma la camera e mezzo dei miei genitori era un palazzo di scoperte per me, pieno di libri, dischi meravigliosi, ospiti e conversazioni interminabili. Anche se ho trovato difficile crescere in questo esigente (ma benevolo) collettivo socialista, penso che l’educazione ricevuta in quel luogo umile sia stata migliore di molti collegi privati. Ho imparato la giustizia sociale, la responsabilità collettiva e, da mio padre, la magia della letteratura, della musica e dell’arte».

Che influenza ha avuto suo padre su di lei?
«È troppo grande da ricordare. Ma mi piace pensare di aver avuto anch’io qualche influenza su di lui. Eravamo una buona squadra. Mi sento come se avessi appena perso - non un arto, ma parte della mia testa. Eppure, stranamente, una parte della sua testa è ancora dentro la mia. Per favore, non prendetelo in alcun senso mistico. Ma è lì».

La scelta dei suoi studi e del percorso professionale è stata libera?
«Sì, ma senza un soldo. Ho lasciato il kibbutz a 21 anni con una piccola somma di “paga d’addio” e ho dovuto lavorare durante gli studi universitari, spesso facevo più di un lavoro alla volta».

C’è stato un comportamento paterno che l’ha segnata di più?
«Leggere. Parlare. Litigare con stile».

Si è mai sentita limitata dalla personalità di suo padre?
«Sì, molte volte. In Israele, non si ottiene un bonus per essere la figlia di una persona famosa. Invece, devi pagare fio. Ho pagato molti tributi - nel kibbutz, all’università, nella mia vita pubblica come accademica e scrittrice. Dovevo essere migliore della maggior parte degli altri. Ora penso di star bene».

A che età ha scoperto il suicidio della madre di suo padre, che aveva il suo stesso nome?
« L’ho letto quando avevo sedici anni su una rivista americana lasciata sul tavolo in salotto. Ho chiesto a mio padre perché non me l’avesse detto prima. Non ricordo cosa abbia risposto. Penso che fosse, per lui, un posto oscuro e miserabile nella sua mente e non voleva guidare lì i suoi figli. Più tardi è riuscito a raccontare la storia a noi e poi al mondo in Una storia di amore e di tenebra (ndr Feltrinelli)».

Ha scritto un libro con suo padre Gli ebrei e le parole: com’è stata l’esperienza?
«È stata una delle migliori esperienze, penso, sia per lui sia per me. Di solito, i libri sono scritti con un certo dolore, una certa sofferenza. È stata una celebrazione di tutto ciò che abbiamo fatto insieme, leggere, parlare e discutere. Era una sorta di gioia profondamente ebraica, ma anche una prodezza di padre e figlia».

Insegna Storia all’Università di Haifa: come cambiano le studentesse che frequentano le vostre lezioni nel corso degli anni?
«Insegnare a Haifa è un’esperienza interessante. Per quanto riguarda le mie studentesse arabo-israeliane sono figlie dei nostri primi studenti arabi e, a differenza delle loro madri, queste giovani donne stanno diventando avvocatesse, economiste, medici e hanno intenzione di sviluppare la loro carriera per tutta la vita. Questo sta cambiando non solo la società arabo-israeliana, ma l’intera società israeliana. Credo fermamente che Israele possa insegnare molto all’Europa sull’integrazione dei gruppi di minoranza nell’istruzione accademica e nella società principale. Oggi, in Israele, il problema principale non è lo status delle donne, ma la grande divisione tra la metaforica Gerusalemme e la metaforica Tel Aviv. Cioè, la spaccatura tra tradizionalismo, dominazione maschile ortodossa, nazionalismo, paura degli arabi, ebrei laici, donne forti e una società rilassata, LGBT-friendly, globale e umanista. E sbaglia chi pensa che Tel Aviv sia meno ebrea di Gerusalemme. La mia amata Tel Aviv non è meno ebrea, a modo suo. Quel modo che io e mio padre spieghiamo e proponiamo in Gli ebrei e le parole».

Che cosa pensa della vittoria di Netanyahu?
«La proposta di Netanyahu per un’annessione israeliana della Cisgiordania, è estremamente preoccupante. Netanyahu si troverà ad affrontare un milione di manifestanti, l’intera ala sinistra (gli elettori in gran parte attirati nel partito di Gantz, ma molto vivi), i pochi politici ed elettori di destra decenti. Il dibattito pubblico diventerà ancora più difficoltoso. Amos Oz ha giustamente e profeticamente intitolato la sua ultima conferenza La resa dei conti. Il futuro di Israele è drammaticamente aperto».

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