«Siamo discriminate». La causa delle calciatrici alla Lega americana (col sostegno di Serena)

Gaia Piccardi

Carli Lloyd, tripletta al Giappone nella finale dell’ultimo Mondiale (6 luglio 2015), terzo titolo per gli Usa in sette edizioni del torneo (più quattro ori olimpici). Alex Morgan, prima donna calciatrice a comparire sulla copertina di un videogioco della Fifa. E Megan Rapinoe, attivista dei diritti Lgtb, la centrocampista che con la fidanzata Sue Bird, stella della lega basket, forma una delle power couple più note dello sport americano. Lloyd, Morgan e Rapinoe, che si alternano come capitane della Nazionale di calcio degli Stati Uniti, sono le prime firmatarie della class action intentata da 28 giocatrici contro la Federcalcio Usa, colpevole di un’accusa grave: discriminazione sessuale.

Né i tempi né i modi di una causa che rischia di fare giurisprudenza a livello mondiale sono casuali. L’atto di citazione è stato depositato al tribunale di Los Angeles l’8 marzo, festa della donna. A meno di tre mesi da Francia 2019, il Mondiale a cui l’Italia si è qualificata dopo 20 anni di digiuno, il terreno di caccia delle campionesse in carica che vincono molto di più dei colleghi maschi (gli Usa non si erano qualificati per Russia 2018), guadagnando infinitamente meno. La «disparità di genere istituzionalizzata», in atto da anni, è ben documentata da Megan e compagne: 19 match in più dei maschi, giocati tra il 2015 e il 2018. Da 5 mila a 17 mila dollari di gettone di presenza per ogni singolo giocatore (indipendentemente dal risultato), 15 mila in totale per la squadra delle ragazze solo in caso di qualificazione al Mondiale (centrata) fino all’assurdo del bonus da 5.375.000 dollari per i maschi eliminati negli ottavi da Brasile 2014 contro i 1.725.000 dollari per le ragazze trionfatrici in Canada nel 2015. Una finale vista da 23 milioni di americani (record per una partita di pallone di qualsiasi sesso), alla faccia del «valore di mercato inferiore del calcio femminile»: l’argomento con cui la Federazione Usa ha cercato di motivare il diverso trattamento.

Ma non basta. Costrette a volare sugli aerei di linea mentre per i colleghi venivano organizzati charter privati (dove si riposa meglio), le calciatrici dal 2014 al 2017 hanno giocato 13 di 62 partite casalinghe su campi in erba artificiale (su cui è più facile infortunarsi), contro 1 su 49 dei maschi. L’onda lunga della discriminazione avrebbe provocato un minor guadagno sui biglietti venduti per gli incontri, in saldo rispetto a quelli degli uomini. «È tempo di far valere i nostri diritti — ha detto Rapinoe in un’intervista al New York Times — e di provare a trasformare il calcio femminile in un luogo migliore». Golf (Ariya Jutanugarn, numero 1 nel ranking dei guadagni 2018, ha davanti ben 33 uomini), hockey ghiaccio (la Nazionale regina ai Giochi di Pyeongchang l’anno scorso sta ancora aspettando che venga organizzata la tournée celebrativa), basket (il salario minimo dell’Nba, 1,35 milioni di dollari, è superiore al salary cap di un’intera rosa della Wnba) si dibattono negli stessi problemi. Ma non tutti gli sport, purtroppo, hanno una Billie Jean King pronta a scendere in campo lancia in resta. «Quella delle calciatrici americane è la battaglia che, prima o poi, ciascuna di noi ha dovuto combattere — ha detto dal torneo di Indian Wells la donna dei 23 titoli Slam nel tennis, Serena Williams, offrendo il suo endorsement alle ragazze —. Se io guadagno quanto gli uomini (i quattro tornei del Grande Slam hanno parificato i montepremi dal 2007 senza che le polemiche si siano del tutto smorzate, ndr) è perché negli Anni Settanta una grande donna si è alzata in piedi». Billie Jean, la pasionaria: «I tempi sono maturi perché le calciatrici ottengano quello che meritano: parità» ha twittato l’americana che il 20 settembre 1973, davanti a 30 mila spettatori, sconfisse in tre set il collega Bobby Riggs nella più famosa battaglia dei sessi della storia dello sport.

La guerra del grano delle giocatrici Usa è la stessa delle colleghe europee, che spesso (è il caso dell’Italia) non si vedono nemmeno riconosciuto lo status di professioniste. La norvegese Ada Hegerberg, il primo Pallone d’Oro donna a cui sul palco fu chiesto (da un presentatore uomo) di «twerkare», ha rotto con la sua Nazionale proprio per motivi di parità di trattamento. «Alziamo la voce!» ha cinguettato l’8 marzo, mentre a Los Angeles partiva il primo lancio verso un potentissimo, potenziale, irresistibile contropiede.

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