22 aprile 2019 - 15:11

Bergamo, la condanna a Calderoli
«Le offese razziste alla Kyenge trovarono seguaci anche sui social»

Caso orango al comizio di Treviglio. Il vicepresidente del Senato a processo parlò di critiche politiche, non personali. I giudici: ma a Palazzo Madama ammise l’errore

di Giuliana Ubbiali

Bergamo, la condanna a Calderoli «Le offese razziste alla  Kyenge trovarono  seguaci  anche sui social»
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Non voleva offendere il ministro per l’Integrazione Cécile Kyenge. Con «oranghi» intendeva i componenti del governo Letta. Erano critiche politiche, le sue. Il vicepresidente del Senato Roberto Calderoli, 63 anni tre giorni fa, si autodifese così, il 10 luglio 2018, al processo per diffamazione aggravata dalla discriminazione razziale. Ma, dicono le motivazioni della condanna a un anno e mezzo, le sue stesse parole di cinque anni prima l’hanno smentito.

In Senato
Il 16 luglio 2013 Calderoli parlò in Senato. Erano trascorsi solo tre giorni dal comizio a Treviglio in cui, citando il «ministro King», quattro volte, disse: «Io sono un amante degli animali, però quando vedo uscire delle... non dico che è, delle sembianze d’oranghi resto ancora sconvolto». Nell’aula di Palazzo Madama, come poi in quella del tribunale, escluse che la frase «esecrabile» avesse significati razzisti. Per il giudice Antonella Bertoja, presidente del collegio ed estensore della sentenza, però, conta che «lo stesso Calderoli in quella sede aveva definito “sbagliate e offensive” le frasi e aveva ammesso di aver commesso “un errore grave, gravissimo, perché ho spostato il confronto dal piano politico a quello personale”». Il contrario, cioè, della versione al processo. «La lettura dell’intervento di Treviglio dell’imputato smentisce in radice la ricostruzione dibattimentale: può darsi che nel prosieguo Calderoli abbia criticato anche tutti gli altri ministri del governo Letta, ma fino a quel momento aveva parlato solo della tematica dell’immigrazione e del ministro “King”». A processo, lo fece notare il pubblico ministero Gianluigi Dettori e nella sentenza è stato indicato: «Richiama alla mente dei meno giovani un noto film avente quale protagonista (non un orango ma) un gorilla».

Il limite della critica
L’immigrazione è sempre stato un tema caldo per la Lega. Il diritto di critica politica va fatto salvo, riconosce il giudice. Però, scrive, «il limite della continenza delle espressioni utilizzate deve ritenersi superato nel momento in cui le stesse, per il loro carattere gravemente infamante o gratuitamente umiliante, trasmodino in una mera aggressione verbale». Nel caso del comizio a Treviglio, la sentenza non lascia margini ai dubbi. È netta e chiara: «L’assimilazione dell’aspetto di una signora a una scimmia antropomorfa è di per sé offensiva; ma se a questo si aggiunge che la signora in questione è di colore, che ne viene sottolineata l’origine africana e che la si invita a tornare nel suo Paese di origine perché solo là potrebbe essere un buon ministro, emerge con assoluta evidenza la natura razzista dell’offesa».

Il seguito sui social
L’utima delle sei pagine di motivazioni ha tratti sociologici. La «piazza», il ruolo, i seguaci e i social, in sintesi la portata del personaggio Calderoli, sono stati un boomerang. «Hanno dato un’eco amplissima alle esternazioni medesime, che sciaguratamente hanno trovato più di un seguace». Altro imputato, a Trento, ma stesso bersaglio. La sentenza cita una condanna definitiva per diffamazione su Facebook che «va collocata nel contesto mediatico sorto intorno alle dichiarazioni del senatore Calderoli sulla somiglianza della Ministra ad un “orango”».

Anche senza querela
A processo, l’ex ministro disse che ad ogni conferenza si trovava persone che arrivavano per offenderla e che da quel momento l’orango non venne associato solo a lei ma a tutte le persone di origine africana. Disse anche che Calderoli offese tutti gli italiani, come lei. Accettò le sue scuse, ma la questione istituzionale rimase aperta. Anche se non querelò (con l’aggravante si procede d’ufficio) e non si costituì parte civile. Fatti che «non assumono rilevanza» scrive il giudice perché «il danno è ben più esteso di quello personale patito dalla signora».

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