11 maggio 2019 - 14:49

«Una rete sociale contro il terrorismo. La scuola può recuperare i radicalizzati»

Il colonnello Storoni: non siamo ancora organizzati. Brunelli (Università): bisogna essere creativi

di Desirée Spreafico

«Una rete sociale contro il terrorismo. La scuola può recuperare i radicalizzati» Familiari jihadisti dell’Isis si arrendono ai miliziani iracheni
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Terrorismo, reclutamento e propaganda, ma soprattutto de-radicalizzazione e prevenzione. Intorno alle sfaccettature, politiche, d’intelligence e giuridiche, di contrasto all’estremismo, si è snodata ieri la conferenza in Università nell’ambito del relativo master. L’incontro ha assunto un respiro internazionale ospitando tra gli altri Kellie Leclair, Intelligence analyst del Fbi, e Maurizio Faraone, comandante della Gendarmeria di San Marino, Interpol. «È necessario un approccio a tutto tondo», l’esordio del colonnello Paolo Storoni, comandante provinciale dei Carabinieri di Bergamo, co-ideatore del corso di studi. L’evoluzione del terrorismo, abbandonando una forma più organizzata, ha lasciato spazio alle azioni dei singoli ed alla conseguente mancanza di un profilo comune tracciabile. «Questo ci costringe a essere creativi, non ragionare per schematismi e stereotipi», ha aggiunto il direttore del master Michele Brunelli, portando a esempio il ruolo attivo delle donne, internet e i social media quali strumenti reclutatori.

Se a livello internazionale sta diventando imprescindibile la collaborazione fra i servizi di intelligence e lo scambio di informazioni, a livello locale è necessario tessere una fitta rete sociale in cui coinvolgere luoghi di lavoro, di culto, amministrazioni e scuole. Proprio dall’istruzione potrebbe arrivare la chiave per sintetizzare politiche di recupero. «Ad oggi — ha continuato Storoni — non siamo organizzati. Come possiamo de-radicalizzare bambini che hanno subito un forzoso indottrinamento a sfondo terroristico? Quale trattamento, anche giuridico, dovranno avere i foreign fighters una volta rientrati in Italia?».

Un problema che sta acquisendo concretezza in tutta Europa: con il crollo in terra siriana e irachena dell’autoproclamato Califfato sono 138 i combattenti jihadisti legati al nostro Paese. Solo 25 avrebbero cittadinanza italiana e oltre 40 sarebbero deceduti nei conflitti. Numeri da non trascurare, ma poco allarmanti se paragonati a quelli francesi o tedeschi che superano quota 1000.

«Le capacità italiane sono forti dell’esperienza passata nel terrorismo di tipo mafioso — così Nicola Piacente, procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Como, che ha poi spostato l’attenzione sull’immigrazione — con i barconi non arrivano terroristi, è troppo rischioso per la vita, ma persone potenzialmente reclutabili e addestrabili». Di qui l’inclusione sociale e il rispetto dei diritti umani, contrapposti alla creazione di comunità isolate, quali punti saldi di prevenzione. «La minaccia terroristica è presente, non deve essere abbassata la guardia — è intervenuto l’onorevole Lorenzo Guerini, presidente del Copasir — dobbiamo elaborare una risposta di carattere eterogeneo».

Le azioni messe in atto operativamente e l’importanza della comunicazione per i terroristi, dalle riviste di Al Qaeda, ai video girati e pubblicati dallo Stato Islamico, fino all’addestramento sui social sono stati il focus nello speech del colonnello Marco Rosi, comandante del reparto antiterrorismo dei Ros. Calando il tema nello specifico della nostra città: «Sulla relazione Bergamo-terrorismo non ci sono oggettivamente situazioni di criticità, abbiamo la presenza di comunità straniere e centri culturali anche islamici, ma nessuna particolare problematica, una situazione che di fatto rispecchia quella del nord-Italia e della Penisola in generale. Le esperienze portate dai colleghi stranieri sono utili elementi di confronto per noi italiani che siamo qualche passo indietro rispetto alle realtà inglesi e francesi, da cui ricavare consigli pratici e sociologici», ha concluso Storoni.

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