5 novembre 2018 - 11:57

In attesa del Bigio almeno salviamo l’Anti-Bigio

In via Volta, resta negletto e quasi illeggibile l’affresco di Lattanzio Gambara, capolavoro di 500 anni fa, sopravvissuto e resistente al fascismo: è il contraltare artistico e democratico della statua di Dazzi, va riparata e «illuminata»

di Massimo Tedeschi

In attesa del Bigio almeno salviamo l’Anti-Bigio
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La decisione del sindaco Del Bono di esporre il Bigio in città, ma non (per ora) sul piedestallo di sua antica pertinenza in piazza Vittoria, pone la discussione attorno alla statua di Arturo Dazzi su nuove basi. Fra poco, e forse per un bel po’ ancora, si disserterà di questo maciste in marmo di Carrara, della sua bellezza (o meno), delle sue fattezze che oggi recano le tracce dei due attentati del 1945, sotto forma di un polpaccio rifatto e un gomito rammendato con l’acciaio, avendo però sotto gli occhi il colosso di sette metri «dal vivo», e non solo i suoi ritratti fotografici di settant’anni fa.

Nel frattempo, nella discussione attorno all’apparato decorativo di piazza Vittoria, sarebbe bello che la città trovasse tempo - e il Comune le risorse - per occuparsi un po’ dell’anti-Bigio. Ovvero di quell’opera d’arte, oggi negletta e quasi illeggibile, che ancora si affaccia in via Alessandro Volta grazie alla resistenza di un valente funzionario dello Stato, il sovrintendente ai Monumenti della Lombardia Ettore Modigliani (che finirà perseguitato dal fascismo per la sua origine ebraica).

Cos’è l’anti-Bigio

Si tratta di un affresco di Lattanzio Gambara che raffigura tre gruppi di personaggi su tre piani diversi, generando uno spettacolare effetto di teatro urbano: contenuto enigmatico ma messaggio di una forza oggi dirompente. Questo è tutto ciò che resta dell’antico quartiere delle Pescherie, raso al suolo per realizzare la piazza piacentiniana inaugurata dal Duce in persona nel 1932. La soprintendenza, che aveva detto sì alla demolizione di chiese, case medievali e un reticolo viario d’antica storia, si impuntò proprio sul Gambara: la facciata dipinta dal grande artista non poteva essere abbattuta. E così sono conservate fotografie dei primi anni Trenta che documentano l’enorme spianata realizzata per accogliere Piazza della Vittoria e i sedici edifici che la contornano, in cui svetta un unico relitto del passato: quattro stanze una sopra l’altra a formare una specie di torre puntellata su cui se ne stanno indenni e perfino beffarde le figure resistenti del Gambara.

L’assalto fascista

I fascisti tentarono le vie di fatto. Qualcuno scagliò una bottiglia d’acido, qualcun altro una boccetta di inchiostro contro la facciata rinascimentale: niente da fare. Un tal Damaso Riccioni, nerboruto della penna, sul «Brescia», rivista mensile peraltro colta dell’epoca, se la prese con la «mirabolante minchioneria» della tutela dell’affresco e invocò «la provvidenziale mascella del piccone» contro quel «muro del pianto»: niente da fare. La parete affrescata rimase in piedi e i progettisti del palazzo delle Poste dovettero acconciarsi a un’inedita variante, finendo per «abbracciare» con il loro edificio quella sorta di torretta molesta.

Com’è oggi

Il risultato è ancora lì da vedere, possibilmente al tramonto, quando il sole illumina meglio la parete occidentale delle Poste. Chi da piazza della Vittoria si incammina verso la Loggia, alla propria destra noterà tre coppie di finestre che fanno da cornice all’affresco superstite, una scena più bella forse e più leggibile di quelle delle antiche case del Gambero (incrocio corso Palestro-via Gramsci): il Paglia che lo descrisse per primo parlò di un giudizio di Nerone matricida. Altri vi videro un riferimento alle tre età dell’uomo, altri a un fatto avvenuto nella casa. L’impressione di una giuria popolare antica, magari intenta ad ascoltare o a richiamare l’attenzione dei passanti, è la più convincente. L’edificio, poi passato al Comune, si affacciava su quella che un tempo era chiamata Contrada delle Mercanzie ed in qualche documento è denominato «Casa Galanti». Affresco resistente al fascismo, reperto unico dell’antico quartiere, opera d’arte «in sé»: ci sono tre buoni motivi per ripulire questa scheggia incantevole di Brescia, ripararla dalle intemperie e illuminarla come si conviene a un capolavoro di mezzo millennio fa. Aspettando il Bigio, salviamo almeno il suo contraltare antico, artistico e «democratico».

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