13 ottobre 2018 - 15:36

Bazoli: «Un grande bresciano
Riconciliò Chiesa e democrazia»

L’amicizia con il nonno Luigi e il padre Stefano, l’influenza degli ambienti di formazione, i colloqui

di Massimo Tedeschi

Bazoli: «Un grande bresciano Riconciliò Chiesa e democrazia»
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Nel 1980, con largo anticipo sull’apertura del processo canonico, cinquantuno bresciani vennero interpellati da una commissione di sacerdoti e interrogati sulla «santità» di Paolo VI. Fra le «persone informate sui fatti» di allora ci sono mons. Enrico Tosi e Giovanni Bazoli. Bazoli venne sentito per i legami che Montini ebbe con suo nonno Luigi e con suo padre Stefano, ma anche per i colloqui diretti che egli stesso ebbe prima e dopo l’elezione a Papa. Una frequentazione importante per capire l’ambiente da cui uscì Paolo VI. E tentarne un giudizio storico.

Professore, come sintetizzerebbe il segno lasciato da Paolo VI nella storia?
«L’impegno programmatico del suo pontificato, annunciato sin dall’inizio, (ma già anticipato da arcivescovo di Milano), fu quello di avvicinare la Chiesa al mondo moderno. L’obiettivo, di grande respiro, era edificare una civiltà umana ispirata dai valori cristiani: di considerare cioè non utopica una ‘civiltà dell’amore’. A guardare in questa direzione Paolo VI era spinto, oltre che dalla fedeltà al Vangelo, da un profondo amore e rispetto per l’uomo e le sue opere. L’ambito in cui tale obiettivo è stato conseguito in modo più compiuto e prezioso è stato, a mio avviso, quello del riconoscimento, pieno e senza riserve, da parte della Chiesa del valore delle istituzioni democratiche. Memorabile, a questo riguardo, il discorso che Papa Montini tenne alle Nazioni Unite nel 1965».
In questo “pesa” dunque la sua formazione bresciana?
«È stato lui stesso, da Papa, ad affermare che il suo magistero e la sua concezione della vita ‘hanno trovato la loro radice nei valori che sono il patrimonio inestimabile della brescianità’. Montini era cresciuto all’Oratorio della Pace, fucina del cattolicesimo bresciano, e in molti dei suoi discorsi ha fatto riferimento a grandi figure sia di sacerdoti sia di laici bresciani che vissero e operarono al tempo della sua formazione. Anche l’esperienza del padre, deputato del Partito Popolare, è stata probabilmente una fonte di ispirazione del suo impegno per far crescere la presenza dei cattolici in politica. Va detto infatti che Paolo VI ha lasciato un’impronta profonda non solo nella storia della Chiesa universale, ma anche nella vita della comunità civile italiana».
L’incontro con la modernità non è avvenuto su altri terreni: basti pensare alla Humanae Vitae.
«Io penso che la scelta, tanto dibattuta, di quell’Enciclica sia stata dettata principalmente da una ragione che pochi hanno considerato, ossia dal rispetto – che rasentava lo scrupolo – che Paolo VI aveva nei confronti della tradizione e della storia della Chiesa. Montini è stato un Papa per tanti aspetti un innovatore, ma sempre attento a non segnare una discontinuità rispetto all’insegnamento dei suoi predecessori».
Eppure ha compiuto tanti gesti innovativi.
«Gesti innovativi, coraggiosi e profetici. Basta pensare ai viaggi apostolici da lui inaugurati, a cominciare da quello straordinario che vide per la prima volta un Papa a Gerusalemme. Gesti profetici, ma non di svolta sul piano della dottrina».
Come si fa a far conoscere Paolo VI, ad accrescere la devozione popolare come chiede il vescovo di Brescia? Chi deve fare cosa?
«La canonizzazione invita certamente a promuovere una maggiore devozione popolare verso Paolo VI. A questo fine può giovare una migliore conoscenza della sua figura: a ciò può provvedere l’Istituto Paolo VI, la cui missione primaria è tuttavia quella di studiare la figura di Papa Montini e il suo magistero sotto il profilo culturale e scientifico. Ma penso che la promozione di una devozione popolare sia compito dell’intera Chiesa bresciana, anche attraverso la valorizzazione della Casa natale».
Lo affligge un’immagine di freddezza, di distacco.
«Forse si è guardato a Paolo VI come al “figlio della borghesia”. Probabilmente hanno influito anche la sua riservatezza e la scarsa sua propensione agli ‘abbracci popolari’. Ma ravvisare in lui un atteggiamento élitario è del tutto sbagliato, così come attribuirgli un’indole fredda e distaccata. Al contrario, era una persona di straordinaria ricchezza e sensibilità umana, che affascinava negli incontri personali ogni interlocutore».
E la santità? Lei che l’ha conosciuto cosa ne dice?
«Credo che nessuno possa avanzare dubbi sulla santità della sua vita. Era un uomo di rara intelligenza e capacità di visione, ma insieme di fortissima spiritualità e di esemplari virtù, guidato esclusivamente, anche a prezzo di incomprensioni e impopolarità, dalla propria coscienza e dall’impegno di fedeltà al Vangelo. Il peso delle responsabilità che gravavano su di lui è espresso efficacemente dalla scultura che in Cattedrale lo raffigura genuflesso, sovrastato e quasi schiacciato dal peso della Porta Santa».
In che circostante l’ha visto a tu per tu?
«I ricordi più remoti nel tempo risalgono a incontri di carattere familiare, alle riunioni tradizionali, il giorno di Santo Stefano, onomastico di mio papà, in casa Montini in via delle Grazie. Lo incontrai poi alcune volte a Roma (dove io frequentavo l’università) in compagnia di mio padre che era deputato in Parlamento, e anche da solo. Rammento in particolare una sera in cui andai a prenderlo in auto in Vaticano per accompagnarlo a casa di un amico, l’avvocato Tacci, ad una cena durante la quale mi parlò di mio nonno Luigi, nei cui confronti nutriva profonda stima e venerazione. Una volta da cardinale, a Milano, quando ero in Cattolica e rappresentante dell’Associazione degli assistenti, mi cercò per avere una mia opinione circa la nomina del Rettore, che fu poi Lazzati».
E gli incontri quando era già Papa?
«Numerosi, in Vaticano, alcuni anche a Castel Gandolfo. In occasione del viaggio di nozze mi ricevette in visita privata con mia moglie, che non l’aveva mai incontrato in precedenza e che rimase colpita dalla sua squisita umanità e confidenza. A Castel Gandolfo ho il ricordo particolare di una cena con alcuni amici bresciani, in un’atmosfera distesa e molto cordiale, e ho vivida nella memoria l’immagine del Papa che, dopo essersi accomiatato, si incamminava da solo verso il suo appartamento, mentre suo fratello Francesco commentava: ‘Che solitudine, povero fratello mio’ (si era alla vigilia della “Humanae Vitae”)».
C’è ancora un’attualità di Paolo VI oggi?
«La civiltà occidentale sta attraversando una crisi di portata epocale. Occorre ritrovare le ragioni di un impegno civile da parte dei credenti, sulla base di una nuova sintesi, vorrei dire di una nuova “summa di pensiero”. Montini, come ho detto all’inizio, è il Papa che, avendo colto i segni di tale crisi, si è impegnato a delineare i fondamenti di una nuova civiltà, basata sui valori imprescindibili tanto dell’umanesimo quanto del cristianesimo».

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